Controstorie

La vera primavera araba è cominciata un anno fa

Dopo 12 mesi di manifestazioni, l'onda del neonato Hirak ha dato una spinta al cambiamento del Paese

La vera primavera araba è cominciata un anno fa

22 febbraio 2019 - 22 febbraio 2020. Un anno fa è iniziata in Algeria una delle più straordinarie vicende politiche della storia moderna: un bel venerdì di sole quasi senza preavviso - centinaia di migliaia di cittadini stanchi del corrotto regime militare che li governava ormai da decenni hanno cominciato a scendere pacificamente in piazza, ogni settimana, nella capitale e nelle principali città, per chiedere l'instaurazione di una democrazia fondata sullo stato di diritto. Il Movimento (in arabo Hirak) non ha per adesso né capi riconosciuti, né un indirizzo politico preciso, probabilmente ha nelle sue file anche molti islamisti sconfitti nella guerra civile di trent'anni fa, vuole soltanto il cambiamento. Nonostante l'opposizione talvolta violenta delle forze dell'ordine, con ampio uso di lacrimogeni e centinaia di arresti, in cinquantadue settimane non c'è stato neppure un morto, neppure uno sciopero generale; e anche se il «potere», come gli algerini chiamano l'oligarchia di militari e di uomini d'affari che occupa il palazzo non è ancora caduto, il Paese non è più quello di prima. Una parte degli obbiettivi che i manifestanti si proponevano è già stato raggiunto, altri sono a portata di mano, e vista la tendenza del nuovo governo di evitare lo scontro cresce la sensazione che si possa arrivare, in un modo ancora da inventare, a una soluzione negoziata.

Una cosa è certa: la piazza non mollerà, è diventata consapevole della propria forza e cosciente dei propri diritti, e se il «potere», dopo le graduali concessioni che sta facendo in questo momento dovesse di nuovo tentare di arroccarsi, rifiutando per esempio la liberazione di tutti i prigionieri politici, non glielo consentirà. Insomma, ci sono buone probabilità che questa primavera 2.0, così diversa da quelle che dieci anni fa sconvolsero il modo arabo, ma simile negli obbiettivi, possa concludersi con un successo.

Tutto è cominciato per protestare contro la candidatura del vecchio Abdelaziz Bouteflika, eletto presidente nel 1999 dopo la vittoria sugli islamisti, a un quinto mandato. L'uomo, colpito anni fa da un ictus, quasi incapace di parlare e confinato su una sedia a rotelle, era ormai ridotto un fantasma nelle mani di parenti, sodali ed ex compagni d'arme che sotto la sua copertura saccheggiavano le casse dello Stato. C'è voluto più di un mese di manifestazioni prima che il «potere» cedesse e ritirasse la candidatura, ma questo primo successo non è bastato a soddisfare la piazza: il suo obbiettivo è diventato lo smantellamento graduale del regime, l'eliminazione dei suoi esponenti più corrotti, la riforma della Costituzione, elezioni democratiche con nuove regole stabilite di comune accordo: in sostanza, la fondazione di una Seconda repubblica sulle ceneri della prima. Sono seguiti mesi di tira e molla, in cui l'oligarchia ha cercato di placare il Movimento con progressive concessioni, ma senza mollare le redini del potere: per esempio, ha arrestato e messo sotto processo per corruzione e tradimento ben 14 ministri dei vecchi governi, ha affidato a una commissione indipendente il compito di redigere una nuova Carta, ha riconosciuto almeno a parole i diritti fondamentali dei cittadini, ma ha voluto procedere con le vecchie regole alla elezione di un nuovo presidente: Abdeladjid Tebboune, ex ministro sicuramente più liberale di molti altri esponenti del regime, ma pur sempre vicino ai militari e perciò considerato illegittimo dall'opposizione. Lo stesso Tebboune ha cercato di attenuare lo scontro nominando un governo formato prevalentemente da tecnici, che si è messo subito al lavoro per cercare di venire incontro alle esigenze del Paese: nel piano di azione varato proprio alla vigilia del primo anniversario dell'Hirak si riconosce l'urgenza di «procedere a una revisione profonda del modo di governare e di concepire nuove regole per portare a buon fine le politiche di sviluppo». Sulla carta, è un progetto a 360 gradi, disegnato apposta per venire incontro alla piazza: rilancio dell'economia, libertà di manifestazione e di stampa (che, per la verità, non è mai stata veramente soffocata), nuovi investimenti nella scuola e nella sanità, promozione dell'emancipazione femminile. Naturalmente, tra il dire e il fare c'è sempre di mezzo il mare, e molti rimangono scettici sulla portata della svolta. Soprattutto i giovani (l'età media della popolazione è ventotto anni e su 40 milioni di abitanti ci sono 1,5 milioni di studenti, di cui il 60% donne) temono che si tratti solo di espedienti per calmare le acque e arrivare a un sistema ibrido che assecondi le istanze del Movimento ma assicuri nel contempo la sopravvivenza di un «potere» riformato, ma sempre padrone della stanza dei bottoni.

Un nuovo inizio è reso più difficile dalla situazione economica, che riduce le risorse a disposizione del governo. L'Algeria è un Paese potenzialmente ricco, con grandi riserve di idrocarburi e distese di terreni fertili, ma in cui lo sviluppo è stato ostacolato da un rigido statalismo in parte mutuato, negli anni in cui il Paese era vicino all'Urss, dal socialismo reale. C'è stato anche un eccessivo urbanesimo, con il 70% della popolazione che vive ormai nelle città. Per esempio, pur essendoci le condizioni per eccellenti allevamenti di bovini, è costretto a importare buona parte del suo latte. Ora che la rendita petrolifera è diminuita, che l'efficienza dell'apparato industriale è compromessa dalla corruzione e che aumenta la schiera dei disoccupati, il nuovo governo cerca di aprirsi di più verso il mondo esterno, rinnovando tra l'altro gli accordi con Eni ed Edison. Un aiuto importante potrebbe venire dal turismo, fin qui poco sfruttato.

Una cosa, comunque, è assicurata: la nuova Algeria che alla fine nascerà da questo anno memorabile, sta tornando, dopo un periodo di autoisolamento, a essere una importante protagonista della politica mediterranea.

Commenti