Più che al futuro e alla difficile opera di edificazione di una generazione di scrittori locali e localizzati, lanimo di Giancarlo Marinelli è stimolato dai grandi del passato. Scandaglia i testi dei maestri, coltiva il dialetto, si lascia stupire dalle pietre dei posti dove vive. Lui, vicentino di nascita radicato a Este, cittadina sui Colli Euganei con le mura dei Carraresi, quando le sfioriamo, mi dice: «Un veneto come te a Milano... Come hai fatto ad abituarti? Io non potrei, devo stare qui, vicino a queste pietre. Ho vissuto a lungo a Roma, e spesso ci torno per motivi di lavoro, ma se voglio scrivere, se voglio trovare le idee buone devo tornare qui. A Padova, sul Delta del Po, a Chioggia, lunico posto al mondo dove, quando il semaforo è rosso dicono fermate! che xe fragoea e quando è verde dicono parti! che xe menta».
Con questa premessa, figurarsi se il trentacinquenne Marinelli, regista teatrale e cinematografico, sceneggiatore, scrittore più volte finalista al Campiello - ora in libreria con Non vi amerò per sempre edito da Bompiani - può relativizzare la dittatura delle radici. Proprio lui che nel penultimo libro (Ti lascio il meglio di me, sempre da Bompiani) ha descritto la bassa padovana che sconfina nel Polesine come una terra sognante, immersa in quella nebbia che «non ti fa capire da dove provengono gli odori, i rumori, le voci, gli scricchiolii», e per giunta vi ha trapiantato un bosco pieno di promesse e misteri che ha messo in moto anche qualche turista che, non ritrovandolo una volta giunto lì, lo ha sommerso di critiche online. «Ho solo realizzato letterariamente il matrimonio tra i luoghi dorigine paterni, la bassa nebbiosa, e quelli materni, i colli boscosi attorno a Este», si giustifica lui. Ma poi riparte a decantare la mitologia delle radici. Con un preambolo. «Cosè, davvero, il Nordest? Io alle bussole credo poco. E anche alle categorie economiche, alle etichette giornalistiche in voga». Cerano una volta le Tre Venezie, con la loro storia e la loro antropologia culturale. Ora cè il nuovo assemblaggio geografico, vagamente spregiativo, per dire che il Nordest è solo soldi, schei senza memoria. «Ma se di ricchezza dobbiamo parlare, non quella della new economy o tutta monetaria delle fusioni bancarie, è di quella che viene da dentro e dalla nostra tradizione. Solo in forza di questa abbiamo tanto da dire e da dare. Solo da questa sorgente nasceranno anche i fuoriclasse della letteratura».
Perciò, via con i maestri e il rapporto diretto tra la loro scrittura e la geografia delle Venezie. Giovanni Comisso: «Che - cresciuto da una balia che perde il latte perché ingravidata e che, per non essere licenziata, lo svezza a vino - dice sono sopravvissuto grazie allaria del Piave». Giuseppe Berto: «Che crea il suo miglior romanzo, Il cielo è rosso, durante la prigionia a Hereford, in Texas, dove trova la forza di scrivere di Treviso e Mogliano». Già, ma non sarà un fatto di nostalgia, di posti idealizzati davanti allincombere della morte? «Sarà anche questo», ammette Marinelli prima di rilanciare, «perché, poi, una volta in Italia, appena si allontana dal suo Veneto lispirazione di Berto si affievolisce. Basta confrontare la vena dei suoi articoli per Il Carlino, nei quali si metteva a nudo scrivendo di Dio, della sua depressione, con quelli scritti a Roma e in Calabria, dove tutto questo sparisce». Oppure Paolo Barbaro: «Un altro autore che amo molto, quando si avventura per i nostri fiumi: il Tagliamento, il Livenza, il Brenta, il Bacchiglione, lAdige, fino al Po. E scrive: Il Veneto per noi era il mondo: era una progressiva scoperta che esigeva la nostra partecipazione: più lo conoscevamo, e ne diventavamo consapevoli, più diventava Veneto e più ci sentivamo al mondo. È singolare, quando apriamo gli occhi, poco alla volta lo scopriamo... Le montagne, il mare, periferie come Marghera che sembrano Blade Runner, poi Arquà Petrarca, il borgo dove finì la sua vita il poeta e ti sembra di precipitare nel tardo Medioevo.
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