Controcultura

Don Camillo santo subito. Nel Terzo millennio ci serve ancora un curato

Il prete della Bassa è un reazionario (come il suo creatore). Ma in nome di Dio

Don Camillo santo subito. Nel Terzo millennio ci serve ancora un curato

È passato mezzo secolo da quella mattina piovosa del 24 luglio 1968, quando Giovannino Guareschi venne accompagnato al camposanto di Roncole Verdi da un gruppetto di amici. Era, già allora, lo scrittore italiano più tradotto nel mondo: ma il milieu della cultura e il palazzo della politica lo avevano abbandonato da un pezzo. Dietro al feretro, «non uno d'un rappresentante di quel partito che il 18 aprile 1948 egli contribuì a mettere sul trono», scrisse Giovanni Mosca sul Corriere della Sera del giorno dopo. Era stato lui, Guareschi, a inventare quel formidabile slogan («Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no») che la Dc avrebbe usato contro il Fronte Popolare: «Ma il discorso sulla ingratitudine - scrisse ancora Mosca - è un discorso vecchio che non mette più conto di fare». I democristiani, a Guareschi, gliel'avevano giurata da quando si era messo di traverso a De Gasperi. Quanto al mondo della cultura perbene, aveva sempre odiato Guareschi. Anzi lo aveva sempre disprezzato, che è peggio. Quando si cominciò a cercare un regista per il primo Don Camillo al cinema, si dovette andare in Francia per trovarlo. In Italia tutti gli interpellati si erano chiamati fuori: «Chi perché il film tirava in ballo i comunisti, e chi invece perché il film tirava in ballo i comunisti», spiegò Giovannino.

Guareschi ebbe la disgrazia di morire in Italia: ma la fortuna di sopravvivere ai vili e ai meschini. Il tempo gli è stato galantuomo, consegnandolo a imperitura memoria. Indro Montanelli spiegava il successo di Guareschi dicendo che non si può capire l'Italia del dopoguerra senza leggere i suoi libri. È vero. Eppure non basta, perché Guareschi oggi lo leggono in tutto il mondo e a tutte le età: lo leggono anche i quindicenni della Groenlandia, che nulla sanno, né mai sapranno, dei nostri Padri Costituenti, delle elezioni del '48, del triangolo della morte in Emilia e della seconda ondata. No, non basta la politica a spiegare un successo che pare non conoscere fine: è che «in quella fettaccia di terra distesa lungo la riva destra del Po, fra Piacenza e Guastalla, con le sue strade lunghe e diritte, le sue case piccole pitturate di rosso, di giallo e blu oltremare, sperdute in mezzo ai filari di viti», Guareschi ha messo in scena una commedia umana universale.

Ci sono pure dei paradossi, in questa attualità, in questa freschezza, in questa capacità di precorrere i tempi da parte di un reazionario (così si definiva lui stesso) come Guareschi. Pensate a don Camillo. Se c'è un modello di prete tridentino, preconciliare, insomma egli pure «reazionario» secondo un certo schema, questi è don Camillo. Leggere, per credere, l'ultimo libro di Guareschi, Don Camillo e don Chichì, dove il vecchio pretone della Bassa si trova a dover convivere, in parrocchia, con un pretino in clergyman che gli magnifica le novità di un Sessantotto che sta per irrompere. Don Camillo va a sfogarsi davanti al crocefisso. «Signore, cos'è questo vento di pazzia? (...) Signore, volete forse dire che il demonio è diventato tanto astuto che riesce, talvolta, a travestirsi perfino da prete?». «Don Camillo! - lo rimproverò sorridendo il Cristo -. Sono appena uscito dai guai del Concilio, vuoi mettermi tu in nuovi guai?».

Eppure, quando Papa Francesco ha voluto indicare, a tutto il suo clero, un modello di prete, un solo nome ha fatto, uno solo: «Don Camillo». Un paradosso, appunto, perché Bergoglio - sempre grazie alla superficialità con cui si guarda alle cose di Chiesa - è considerato il progressista, l'anti Ratzinger, e via discorrendo di banalità. La realtà è invece che destra e sinistra, conservatorismo e progressismo saranno forse categorie buone per capire la politica (forse: perché oggi, poi, neanche più tanto): ma risultano vecchie, obsolete, grottesche quando si tratta semplicemente di annunciare un Dio che si è fatto uomo, è morto ed è risorto. Perché poi il cristianesimo sta tutto qui, non nei solipsismi di tanti teologi, né tanto meno nelle beghe di Curia.

E Papa Francesco, che da buon gesuita sa essere «dotto con i dotti e popolare con il popolo», ha ben presente quel che manca davvero oggi alla Chiesa: dei pastori, altro che le riforme degli istituti vaticani. Di cosa abbiamo bisogno infatti, noi poveri mortali, quando la vita ci interpella con durezza? Di una commissione pastorale? Di un documento sinodale? Degli interventi della Cei sulla situazione politica italiana? Oppure abbiamo bisogno di un don Camillo, cioè di un prete neppure troppo colto ma dal cuore grande?

Don Camillo è il modello di sacerdote indicato dal Papa perché è colui che una volta si chiamava «il curato»: cioè un prete che «si prende cura» delle anime che gli sono state affidate. Di tutte le anime, anche quelle dei bolscevichi senza Dio. Pensateci bene: Don Camillo è il centro del paese. Tutto quello che accade nel suo piccolo borgo ruota attorno a lui. Se il Grande Fiume rompe gli argini e invade le case le strade e le piazze, è don Camillo che resta a presidiare il paese. Se i contadini in sciopero smettono di mungere le vacche, è don Camillo che va dagli agrari a implorar loro di migliorare le condizioni di vita di chi lavora nei campi, «perché se sono diventati comunisti è per colpa del vostro egoismo». Se emergono le vecchie ruggini della guerra civile e volano randellate perfino fra i bambini, è don Camillo che va, di casa in casa, a cercare di riportare la pace: magari con qualche cazzotto se occorre, ma la pace. Se due fidanzatini vanno a farsi annegare nel fiume perché i loro genitori non vogliono che si sposino, è lui, don Camillo, che mobilita cellula e parrocchia per andare a salvarli. Se il figlio del comunista Peppone sta morendo, è sempre lui, don Camillo, che va a farsi prestare i soldi per comprare i ceri più grandi che si possano trovare e li porta davanti al suo Signore per chiedergli in ginocchio di impedire la più grande delle ingiustizie, che è la morte di un bambino.

Questo era don Camillo perché questo era Guareschi; e soprattutto perché questo era, ed è ancora, il suo Mondo Piccolo. Non è cambiato molto, quel mondo. Lo potete ritrovare, quasi intatto come nei vecchi libri di Guareschi, se lasciate l'autostrada a Fidenza e seguite poi i cartelli per Busseto e Soragna. Quasi per un sortilegio, avrete l'impressione di scorgere - in una casa, dentro una corte, al tavolo di una vecchia trattoria - i suoi matti personaggi: don Camillo, Peppone, lo Smilzo, il Brusco, il Nero, la vecchia maestra che in punto di morte chiede di essere avvolta nella bandiera monarchica perché «i re non si mandano via, mai!». Giunti poi a Roncole Verdi, a pochi metri dalla casa natale del Maestro troverete quel camposanto in cui Giovannino riposa.

Quando calarono la bara nella fossa, furono i figlioli Alberto e Carlotta a gettare il primo pugno di terra, perché gli fosse leggera e buona.

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