Quasi occultata in uno dei soliti, ponderosi studi della Commissione europea, c’è una tabellina fitta di cifre. Vi si racconta, prendendo in esame i principali Paesi dell’euro zona, il peso sulla ricchezza complessiva di ciascun Stato del Welfare, cioè pensioni, assistenza sanitaria e i vari meccanismi di protezione contro la disoccupazione. L’analisi di Bruxelles copre un periodo che va dal 2010 al 2060. L’arco temporale è sostanzialmente lo stesso più volte citato dall’Inps per ricordare la sostenibilità del nostro sistema previdenziale.
Il rapporto non entra nel merito, ma proprio dai numeri si può capire che non siamo messi poi così male. Oggi la spesa pensionistica equivale nel nostro Paese al 14% del Pil. È una percentuale tra le più elevate, anche se bisogna considerare che la penisola fa parte a livello mondiale - insieme con Giappone, Germania, Grecia e Svezia - del club degli Oldest 5, ovvero delle cinque nazioni con il più alto tasso di persone sopra i 65 anni. A una popolazione più vecchia della media corrisponde, ovviamente, una maggior spesa destinata al pagamento delle pensioni.
Ciò non è però altrettanto automatico per quanto riguarda le spese per la sanità: in Italia si destina quasi il 6% del prodotto lordo, contro il 7,6%, per esempio, in Germania. L’elemento più interessante è però quello relativo al «carico» pensionistico, che nelle stime della Commissione scenderà dello 0,4% nel 2060 rispetto al 14% attuale.
Un comportamento virtuoso che può essere esteso anche al peso complessivo sul Pil dell’intesa struttura di Welfare, che passerà in 50 anni dal 26 al 27,6%. Lo stesso rapporto sottolinea come in altre aree dell’Unione gli incrementi saranno ben più onerosi per le casse pubbliche. La Francia vedrà crescere la spesa di oltre due punti percentuali, la Germania di più di 5 punti e la Spagna di oltre 8 punti. Il più contenuto impatto della spesa pensionistica sul Pil è strettamente legato alle riforme effettuate dall’Italia negli ultimi 15 anni. Sette per l’esattezza (firmate da Amato, Dini, Prodi, Maroni, Prodi-Damiano, Sacconi-Brunetta e Tremonti), e tutte con un triplice obiettivo: innalzare l’età pensionabile; aumentare i contributi previdenziali; ridurre l’importo degli assegni attraverso i diversi metodi di calcolo delle pensioni, con il passaggio dal vecchio e più oneroso sistema retributivo a quello contributivo. L’apripista, nel 1992, fu il governo Amato che cominciò a porre le basi per alzare l’età pensionistica a 65 anni per gli uomini e a 60 per le donne, oltre a prevedere 35 anni di contribuzione sia per i lavoratori privati, sia per quelli pubblici.
Con la successiva riforma Dini (1995), ecco l’introduzione del sistema di calcolo contributivo: l’importo della pensione viene misurato in base al calcolo retributivo solo per quanti hanno cominciato a lavorare prima del primo gennaio 1996; per gli altri, scatta il sistema basato sui contributi versati, mentre per quanti al 31 dicembre 1995 risultano in possesso di un’anzianità contributiva inferiore ai 18 anni la pensione viene calcolata col sistema misto (retributivo-contributivo).
Da allora, e passando per lo “scalone“ introdotto dalla riforma Maroni, siamo arrivati all’attuale meccanismo che lega, a partire dal 1° gennaio 2015, l’aumento
dell’età pensionabile all’aspettativa di vita con cadenza triennale (non più ogni 5 anni). È un sistema che non trova riscontri in Europa e che, da qui al 2060, aiuterà ad alleggerire il peso delle pensioni sui conti pubblici.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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