Veto brontocomunista contro Gentile

I fatti sono questi: nella mia Firenze la sinistra vorrebbe che si intestasse una via al poeta e senatore a vita Mario Luzi. La destra risponde di sì, a condizione che se ne intesti un’altra a Giovanni Gentile. La sinistra ribatte di non voler sottostare ai ricatti, che Gentile era un fascista e Luzi un sincero democratico che come suo primo e ultimo intervento nelle vesti di senatore ebbe il coraggio civile di attaccare Berlusconi. Non è il tipico atteggiamento trinariciuto? Poi ci vengono a dire che il comunismo non c’è più.


Non c’è ragione di deplorare la richiesta di titolare una via di Firenze a Mario Luzi. Se la merita. È stato un eminente rappresentante del villaggio delle patrie lettere, un apprezzato poeta. Proprio domenica scorsa, in occasione del primo anniversario della sua scomparsa, il Giornale gli ha dedicato una intera pagina della Cultura riportando alcune delle sue poesie più significative. Ha anche sfiorato il Nobel, entrando purtroppo in lizza quando i giurati dell’Accademia delle scienze si fecero prendere dalle fregole del politicamente corretto. Secondo la cui dottrina non è sufficiente il talento e magari l’essere o l’aver dato a intendere di essere antifascisti: per meritarsi il riconoscimento occorre appartenere nel Terzo mondo, rappresentare una qualsiasi minoranza, essere un militante pacifista o vittima di una antica ingiustizia storica.
Quel che invece risulta deplorevole è il becero veto brontocomunista a titolarne una a Giovanni Gentile. Ucciso a sangue freddo – una vera e propria esecuzione - il 15 aprile 1944 da quel Fanciullacci, medaglia d’oro della resistenza, al quale una via è bensì intestata. Assolutamente fuori luogo, ma il trinariciuto può magari perdere il pelo, non certo il vizio – è poi voler promuovere Luzi a campione dell’antifascismo: quando Giovanni Gentile era in vita, Luzi fu infatti fascista quanto lo fu il filosofo. Perché Luzi non era solo quello che ammise essere il fascismo, almeno fino a un certo tempo, «una dittatura goffa e bonaria», non era solo il collaboratore di Primato (diretto da quel Bottai che Luzi giudicò «un buon ministro»), ma anche di Ventuno domani, la rivista fascistissima che ospitava saggi come «La missione della razza italiana» ove si dava per certo che «i lavoratori seguiranno il Regime nella politica razziale, con tutto l’amore e tutta la fedeltà necessaria e della razza saranno i più intransigenti e i più accaniti difensori. Nei figli vorranno che la razza sia sempre più pura».
Sono precisazioni che non meriterebbero d’esser messe in conto, perché nulla c’entrano sul giudizio di Luzi poeta così come non c’entrano – anche se il figliolo di Luzi afferma il contrario - sul giudizio di Gentile filosofo.

Ma ci costringono a farle proprio i trinariciuti, caro Bonanni, con quel loro isterico insistere sul discrimine politico, sociale, morale e financo artistico di un antifascismo ridicolizzato dalla generosità con la quale se ne dispensano le patenti. E malauguratamente Mario Luzi è vittima di quel ridicolo.
Paolo Granzotto

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