Signor Angiolino Zandomeneghi,
ci spiega come ha fatto
la sua società «Europa» a mettere
le mani sui 120 immobili di
proprietà della Dc spendendo
solo un miliardo e rotti di lire?
«Ho fatto una proposta, è stata
avviata una trattativa e si è concluso
l’affare. Conveniente per
ambo le parti».
Per lei sicuramente.
«Ma li avete visti questi benedetti
immobili? Alcuni sono al
massimo di 15 metri quadri, altri
sono di dimensioni ridicole.
Per lo più erano sezioni di partito,
locali dove si riunivano gli
iscritti, molti fatiscenti. Il prezzo
finale venne giudicato congruo
anche dagli eredi della Dc
deputati a trattare.Tenendo presente
le detrazioni, le spese, gli
oneri fiscali, si arrivò alla cifra
finale. Eppoi io avevo un interesse
di carattere fiscale visto che
questi immobili erano intestati
a società che, una volta comprate,
avrei potuto assemblare in altre
mie società che producevano
plusvalenze nei bilanci. Nessuno
scandalo: basta leggere il
“preliminare” e i conteggi sono
chiarissimi, calcolati anche sui
debiti che mi sarei dovuto accollare».
Perché dopo la chiusura della
trattativa gli eredi della Dc le
fecero causa?
«Lo chieda a loro. Leggo che
l’ex segretario del Ppi, Pierluigi
Castagnetti, ha detto che seppe
solo a cose fatte dell’acquisto
del patrimonio. Non dice la verità.
Castagnetti sapeva benissimo
delle trattative. Lo incontrai
due volte, a distanza di quindici
giorni, negli uffici di piazza del
Gesù, presente l’ex tesoriere
Baccarini che materialmente
aveva avviato l’operazione».
E che cosa le disse Castagnetti?
«Mi fece i complimenti, mi incitò ad andare avanti e a
concludere.
Ecco perché sono rimasto
sorpreso dall’insistenza con la
quale, lui e i suoi tesorieri, volevano
dichiarata fallita la mia immobiliare
Europa».
Quanti big dell’ex Dc sapevano
della compravendita?
«Tutti. Da Rotondi a Buttiglione,
da Duce a Baccarini fino a
Oliviero. Addirittura anche i
Ccd di allora, tramite Emerenzio
Barbieri, sapevano bene come stavano
le cose visto che non
vollero aderire alla spartizione
degli immobili per ottenere un
quid - mi sembra 700 milioni
cash - con un decreto ingiuntivo».
Per questa storia degli immobili
democristiani, lei è imputato
per bancarotta a Roma ed è parte
lesa a Perugia nel processo
per corruzione in atti giudiziari
al giudice Baccarini (omonimo
del tesoriere Ppi). Com’è possibile?
«Se uno si fermasse a leggere
gli atti del processo a carico del
giudice che seguì l’istanza di fallimento della mia società Immobiliare
Europa (che acquistò il
patrimonio immobiliare della
Democrazia cristiana, ndr) capirebbe
molte cose. Certi templi
sono difficili da abbattere».
In che senso, scusi?
«Lasciamo stare».
Come mai la società, a lei riferibile,
che alla fine è entrata in
possesso del patrimonio della
Dc è finita in Croazia?
«Per salvarsi».
Prego?
«Per sfuggire a questa azione
politico-giudiziaria mi son dovuto
attrezzare. E ho fatto sparire
i beni, che mi spettavano di
diritto. La società acquirente,
l’ultima della serie, aveva effettivamente
sede oltre Adriatico. È
stata una difesa, niente più».
Puo spiegarsi meglio?
«Certo. Quando loro mi “fanno”
fallire l’Immobiliare Europa,
loro pensano bene di incalzarmi
per avere indietro tutto il
patrimonio. Non appena il curatore
mi contatta, capisco e vendo
le azioni a terzi. A quel punto
vengo colpito da una citazione
per usucapione ma prima che
avvenisse il blocco degli immobili,
però, corro a venderli. A
quel punto“loro” si sono detti: e
adesso come recuperiamo gli
immobili? Seguendo un’iter che
conoscevano bene: facendo fallire
le società Ser e Immobiliare
neodetentrici del patrimonio
immobiliare dell’ex Dc. Non ci è
restato altro da fare che vendere
tutto a una società estera, in Croazia.
Dovevamo salvare quanto
avevamo acquisito con diritto,
eravamo pronti a tutto. Così, a
“loro”, non è rimasto altro da fare
che un sequestro penale».
È un rompicapo.
«In apparenza lo è, in realtà ci
troviamo di fronte a un’operazione che in qualsiasi
altro Stato verrebbe
perseguita e stigmatizzata.
Ma, ripeto, far crollare certi
templi è difficile: ricordo che durante un’udienza,
al tribunale civile,
di fronte ad una decione incompresibile e illogica
del giudice
(quello arrestato) il mio avvocato
perse le staffe e urlò: “Ma io
e lei abbiamo studiato sugli stessi testi giuridici?”.
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