Guerra Libia

Viaggio ad Al Zawia, tra ribelli e irriducibili E l'America offre "qualsiasi aiuto" ai rivoltosi

Un reportage dal nostro inviato in Libia dalla città a 40 chilometri da Tripoli. E' in mano ai rivoltosi da sabato. In piazza hanno scavato dieci fosse per seppellire i caduti. Dagli Usa la Clinton offre il massimo sostegno per far cadere Gheddafi. il Colonnello promette: "La battaglia continua"

Viaggio ad Al Zawia, tra ribelli e irriducibili 
E l'America offre "qualsiasi aiuto" ai rivoltosi

Al Zawia - Mohammed ci viene incontro con le braccia alzate. Barbone nero dell’Islam e caffettano marrone grida: «Non abbiate paura, venite avanti, vi stiamo aspettando». La via alle sue spalle è un campo di battaglia. Palazzi sbrecciati dai proiettili o anneriti dal fuoco. Barricate e automobili carbonizzate che ricordano le strade di Beirut durante la guerra civile. Alla fine della via si intravede un carro armato e uomini con i kalashnikov in attesa. Stiamo entrando ad Al Zawia, 40 chilometri a sud ovest di Tripoli, l’ultima città caduta nelle mani dei ribelli alle porte della capitale dove è asserragliato Muammar Gheddafi.

L’aspetto incredibile è che siamo stati scortati nella città in rivolta dalle guide del ministero dell'informazione libico, su ordine di Seif al Islam, il figlio del colonnello.

All’ingresso della piazza il carro T 72 di fabbricazione sovietica fa la sua impressione. Sullo sfondo sventola una gigantesca bandiera monarchica con la mezzaluna e la stella in mezzo, sfilacciata dalla battaglia. Il centro della città è in mano ai ribelli anti Gheddafi, che l’hanno conquistata sabato mattina. Il giorno prima era scoppiata la battaglia con l’assalto ad una caserma. Parte delle unità dell'esercito libico, hanno disertato al comando di un colonnello.

Giovani in divisa da soldati sparano in aria con una mitragliatrice contraerea per salutare l’arrivo dei giornalisti. Almeno cinquemila persone avanzano in corteo gridando a ripetizione: «Al Zawia è libera. Il popolo vuole abbattere il regime di Gheddafi». Un libico baffuto è armato con un fucile da caccia, un altro agita un'accetta ed i bambini si fanno fotografare con l'elmetto e le dita a V in segno di vittoria. Altri salgono sui carri armati, che presidiano la piazza e bruciano il libretto verde, la Bibbia della rivoluzione di Gheddafi.
Ad ogni ingresso sono piazzate mitragliatrici pesanti, blindati e tank. Nel centro della piazza hanno scavato dieci fosse, le tombe dei «martiri», morti per la rivoluzione. Tre sono ancora da riempire. Una cassa in legno sporca di sangue è in attesa, ma un paio di ribelli si sdraiano nelle fosse per dimostrare che sono pronti a combattere fino alla morte. Per questo l'hanno ribattezzata piazza dei martiri. I compagni di lotta conficcano accanto al nome dell'amico caduto i bossoli dei proiettili che l'hanno colpito. E raccontano la storia di Mohammed Almi Bishena, 19 anni: «Si è piazzato davanti ai miliziani di Gheddafi e aprendo la camicia ha urlato: "Sparate se avete coraggio". Lo hanno ammazzato centrandolo in testa».

Al centro della piazza c’è una piccola moschea trasformata in pronto soccorso e cella per due soldati libici fatti prigionieri. Ragazzotti impauriti seduti a terra, che devono aver preso un bel po' di botte, come dimostrano i cerotti sul naso. Uno si chiama Khaled Duali e l'altro, più scuro di pelle, Salim Ani Salim. I ribelli promettono di liberarli consegnandoli alle loro famiglie. «I morti sono stati 16 e circa 200 i feriti. Non siamo terroristi di Al Qaida, ma gente comune che vuole farla finita con il regime» spiega Akram Rashed con accento americano. Un giovane medico di 30 anni, che due mesi fa è tornato nella sua città, dopo aver studiato e vissuto a Houstom, in Texas. All'hotel Zawia, che si affaccia sulla piazza, si trova il comando della rivolta. Qualche giovanotto in mezza uniforme presidia l’ingresso armato di kalashnikov e baionetta pronta all'uso. I capi non vogliono farsi fotografare, ma spiegano che la città è governata da una specie di shura (consiglio) con rappresentanti della società civile, il colonnello che ha disertato e qualche imam.

Uno dei ribelli fa notare in buon italiano che la banca della piazza non è stata saccheggiata: «Ci sono i nostri soldi dentro», e poi aggiunge: «Non ci fermeremo. Vogliamo la caduta di Gheddafi». Le milizie Kataeb del colonnello sono schierate attorno alla città. Tutti raccontano che cercano di infiltrarsi di notte, per portare via le armi pesanti ai ribelli, ma vengono respinti. Fra i ribelli c'è chi, parlando di Gheddafi fa il segno con la mano di volergli tagliare la gola. Uno strano personaggio, con la barba da giorni ed avvolto in un cappotto nero si avvicina e sussurra in italiano: «Non dovete credere a questa gente sono tutti bugiardi». La guide del ministero dell’informazione venute con noi fra i ribelli ci portano a vedere l’altra Libia, che appoggia Gheddafi. A pochi chilometri dalla città ribelle sfilano oltre tremila sostenitori del colonnello, con la fascia verde d’ordinanza al collo o usata come bandana. Abu Traba Saud è responsabile del dipartimento femminile del comune di Al Zawia. «Quelli in piazza che avete visto rappresentano solo una piccola fetta della città - è convinta la signora con il velo sul capo - Fra loro ci sono dei terroristi legati ad al Qaida. Non vogliamo la guerra civile, ma dobbiamo restare uniti. Per la Libia e per Muammar sono pronta a combattere pure io». Non è ancora chiaro se finirà in un bagno di sangue o si profila uno scenario alla Ceausescu, il dittatore romeno fucilato nel 1989 nella rivolta in Romania. La scorsa notte a Tripoli le sparatorie erano particolarmente intense.

Per Abdul Fatah, un fan del colonnello che parla italiano, non ci sono dubbi: «Chiunque tocchi il padre della rivoluzione lo mangeremo vivo».

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