nostro inviato aIsfahan
Le foto sono ingiallite dagli anni, i colori una volta brillanti virano su toni più sbiaditi. Le mani magre e nervose di Sirvart girano le pagine del grande album, le dita scorrono sulle istantanee di una festa lontana, una parata di sorrisi dietro una grande torta, poi indicano quasi accarezzandolo il volto di un trentenne con i baffi che sorride abbracciato a una ragazza. “My big son”, sospira la donna. “he lives in Usa”. Sirvart volta lo sguardo malinconico verso il giardino pieno di fiori al centro del cortile, poi indica un'altra foto, scattata proprio davanti a quei cespugli di rose. “All family, all together, it was before”. Before, per questa bella, energica signora sulla settantina, vuol dire prima del '79, prima della rivoluzione islamica.
Quando a Jolfa, quartiere cristiano-armeno di Isfahan, città gioiello dell'Iran, la vita era più facile. Il sole conquista piano la terrazza, così Sirvart sposta la sedia e si ripara all'ombra, poi beve un altro sorso di caffé e offre agli ospiti un cioccolatino da una vecchia scatola d'argento. Pochi minuti fa era in strada, di fronte al portone della sua bella casa, a chiacchierare con un'amica. Orgogliosamente a capo scoperto, i capelli castani al vento, in maniche corte e con una gonna al ginocchio. Prima, before, questa era la normalità, spiega scuotendo la testa. E mostra ai suoi ospiti italiani due fototessere. Una è “before”, appunto: c'è una donna giovane che sorride sotto una selva di ricci neri. L'altra è “now”, ed è la faccia di Sirvart pochi anni fa, avvolta in un fazzoletto scuro. “Perché obbligare a questo?”, domanda, e sa che non c'è una risposta. Era meglio con lo Scià per i cristiani in Iran? Porta ancora la tazzina alle labbra, respira, poi annuisce, indica con gli occhi l'altro lato del cortile e attacca: “Mio figlio, quello che è rimasto qui, fa il medico, ha lo studio da quella parte. Ma ormai non ha quasi più clienti. L'economia va male, l'inflazione è impazzita per anni. Così tanti dei nostri amici qui hanno fatto i bagagli e via, sono partiti. Ora vivono lontano. Volevamo farlo anche noi, io e mio marito, siamo stati un anno da mio figlio in America. Bel Paese, ma la gente pensa solo a lavorare, peccato. Poi siamo tornati a Jolfa, qui a Isfahan. Questa è la mia casa”.
Una casa che ha accolto tanti stranieri, per tanti anni, spiega ancora Sirvart sorridendo, prima di aprire un altro libro. Non è un album di foto, ma un diario degli ospiti. Lunghe dediche in inglese, in italiano, in armeno, in tedesco. “Sono gli inquilini che per anni ho avuto qui, quando l'Iran era un Paese vivo e libero, e gli stranieri venivano a lavorare da noi: ingegneri, responsabili di società petrolifere, addetti alle vendite di grandi società mondiali. E affittavo anche una stanza a chi veniva per turismo, quando c'era turismo”, dice scuotendo la testa. Le date, sul diario, dicono più delle parole di ringraziamento o di commiato. Sono decine e decine, dall'inizio degli anni '70, poi dal '79 più nulla. Fìno al 2003. L'ultimo messaggio è di un olandese. “Mi hai incontrato per strada e mi hai accolto come un amico. Chiacchiere, caffé, un pranzo, e un pomeriggio che ricorderò sempre.
Se tutti avessero la tua apertura mentale, Sirvart, il mondo sarebbe un posto migliore”. Gli occhi della donna si fanno malinconici, ma basta chiederle di un'altra foto e si illumina: “Ah, sono le ragazze del coro. La chiesa di Santa Maria, la mia chiesa”, spiega. “Siamo armeni, siamo cristiani, siamo iraniani”, insiste, “è la nostra identità, e non c'è nessuno e nessun regime che possa cancellarla”.
Sulle orme degli hippy paradossi a Teheran
Sulle tracce degli hippy: l'Iran che non ti aspetti
Sulle tracce degli Hippy dalla Turchia all'Iran
In viaggio in Turchia con la beat generation
Da Istanbul a Kathmandu il nostro inviato sull' hippie trail
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.