Viaggio nella Milano oscura tra la gente che non s’arrende

Monologo di Arianna Scommegna in «Qui città di m.» di Colaprico

Miriam D’Ambrosio

Qui città di m., emme come movimento, morte, malinconia, mistero. Emme come Milano scritta con la minuscola, luogo che ospita una fauna umana che afferma la sopravvivenza, perché «a Milano non si esiste, si resiste». Si resiste tra pareti bianche fatte di lenzuola come sudari, candide come il nulla, dove le vite si perdono, i discorsi di sangue e d'amore inseguito si incrociano, il confine tra la vita e la sua fine si spezza.
Qui città di m. è un noir di anime scritto da Piero Colaprico (tratto dalla sua Trilogia della città di M.), adattato per la scena insieme alla regista Serena Sinigaglia, al Teatro Verdi di Milano fino a domenica 29 ottobre. Non è la prima volta che Serena Sinigaglia con il suo decennale gruppo Atir, sceglie un crimine compiuto, con conseguente indagine poliziesca, da rappresentare. Nel 2001 fu la Natura morta in un fosso di Fausto Paravidino con Fausto Russo Alesi che animava più corpi.
Ora, in Qui città di m., è Arianna Scommegna a muoversi nella nudità chiara della scena, a tingerla con il rosso vivo delle morti violente, a dare faccia e voce a personaggi che si alternano senza sosta, che raccontano, si presentano, poveri cristi ai margini o in lotta per emergere, laidi e cinici, o affetti da disarmante ingenuità, falsi duri o esaltati dalla necessità di una superficialità apparente che non li salva.
Abile caratterista Arianna Scommegna, carica di energia, che muove la scena con i suoi cambi a vista, che lavora sulla voce e regala accenti diversi a chi incarna, passando dal veneto al pugliese. Ma l'abilità non è tutta nel mettere e togliere una giacca, nello sciogliere i capelli o legarli, nel giocare con le inflessioni dialettali: Arianna riesce bene quando c'è da sottolineare l'ironia, è brava nei panni del commissario Bagni, esilarante nella tuta asettica di Larvetta della polizia scientifica, caricaturale nelle vesti scure dell'«uomo dell'obitorio», il becchino orfano. Ma si perde nell'evocare a tutti i costi il momento drammatico, fa troppo quando ricerca la lacrima e gli occhi si inumidiscono e la voce si rompe senza creare emozione, senza «arrivare». La mancanza di intensità si unisce alla perdita di direzione di un testo che non regge più man mano che si procede, che inizia spedito miscelando la storia contemporanea pubblica di una città contraddittoria (da Tangentopoli con le sue illusioni di gloria alle delusioni successive), alla storia privata con la sua solitudine abissale fonte di follia e delitto. La regia di Serena Sinigaglia è presente e discreta, a servizio dell'attrice e di parole testimoni di una città contenitore, amata anche se per le sue strade «non si respira, non si vede, non si ascolta».


Questo monologo corale, che in un primo tempo si chiamava Milano, Milano (come un'invocazione o un rimprovero), che sparpaglia il suo senso avviandosi alla fine, indica che in qualunque «città di m.», fermandosi, ci si può salvare ancora.

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