
In un rivelatore cortocircuito ideologico-cognitivo, ieri si è saputo di alcune tensioni nel contingente maghrebino della Flotilla diretta a Gaza. Uno dei coordinatori, di religione musulmana, ha lasciato la missione per protesta contro la presenza a bordo di esponenti della comunità Lgbtq, in particolare di un «attivista queer». E una studentessa musulmana della Flotilla ha fatto notare che «Non posso condividere certi valori: mi rifiuto di permettere che a mio figlio venga offerto un cambio di sesso a scuola». E Samir Elwafi, noto presentatore televisivo in Tunisia (Paese che nel 2024 ha registrato un'escalation preoccupante nella persecuzione omofoba) ha aggiunto: «La Palestina è prima di tutto la causa dei musulmani e non può essere separata dalla sua dimensione spirituale e religiosa. La presenza queer profana la causa».
Ora. È vero che tre voci non rappresentano tutto l'Islam. Ma è vero che da noi al contrario dei Paesi musulmani - l'idealismo rischia spesso di sfociare nell'autolesionismo. E adesso, cosa succede? La Flotilla che rifiuta queer e omosessuali diventa all'improvviso una crociata patriarcale e maschilista?
Un dubbio.
Ma è più importante l'impegno per Gaza o la lotta per i diritti Lgqbt?Purtroppo tutta la faccenda è maledettamente seria. E no. Vista la frattura insanabile fra mondo-Queer e mondo-Pal, pur di fronte a una tragedia umanitaria, non possiamo dire di essere tutti sulla stessa barca.