Baffoni fulvi spioventi. Chiome volpine. Elmo dacciaio a cono, ornato da corna bovine. Lo sguardo perso tra le nebbie, a scovare la rotta su mari flagellati dalle bufere e irti di iceberg. In bilico tra Obelix (il suo cugino celtico impegnato con Asterix a far baruffa con i legionari di Cesare in Gallia) e la fortunata oleografia hollywoodiana, che ne ha fatto il cow-boy di un Far West di fiordi e di flutti ghiacciati, il vichingo meritava unanalisi storica più spassionata e completa.
Vi ha provveduto, con fiocchi e controfiocchi, Rudolf Pörtner, nel suo Lepopea dei vichinghi, in edicola da domani con il Giornale. Forse nessuno, come il vichingo, è stato luomo del Medioevo. Con la tellurica energia dei vulcani e dei geyser che esplodono nelle loro lande dorigine, i vichinghi irruppero nella storia europea l8 giugno 793. Teatro della colata lavica, labbazia di Lindisfarne, isolotto presso la costa del Northumberland, dove i mansueti monaci celti, eredi di San Colombano, miniatori di evangeliari e catechizzatori dellInghilterra, raccoglievano il fieno nella pia illusione che i loro santi patroni, Cutberto lanacoreta e Benedetto il laborioso, avrebbero sempre fatto del loro eremo un asilo inviolabile. Ma le preghiere poco valsero contro le asce e le spade massicce dei predoni del Nord, sbarcati come demoni dalle navi che avevano il drago scolpito sulla ruota di prua e le fiancate coperte di scudi policromi.
Il massacro repentino, lincendio e la rapina dei santi tesori generarono due mitologie contrapposte. La prima, alimentata dai cronachisti conventuali, ne fece dei lupi mannari, emissari di un Dio deciso a castigare il degrado morale della gente cristiana: non esseri umani, ma cataclismi spersonalizzati, pari alle carestie o ai terremoti, promemoria di fuoco e di sangue della fragilità peccaminosa. La seconda, al contrario, proiettò i vichinghi nelleden primordiale delleroicità tipizzata germanica, incunabolo di Sigfrido e di Walhalla, con linfausto armamentario dei martelli di Thor, delle tenebrose magie di Thule, dei corsieri ottìpedi di Odino che, tra danze e cori marziali di Walkirie, scortano i guerrieri caduti in battaglia alle dimore della gloria.
Fasulla paccottiglia, scrive Pörtner, che con lanalisi puntigliosa delle fonti, lapporto dellarcheologia e una fitta messe di dati traccia il quadro storico rigoroso. Il suo metodo è di esaminare la società vichinga dallinterno, senza filtri deformanti, rancorosi o nostalgici. Ne balza a tutto tondo limmagine di un uomo continentale, signore delle strade dacqua e di terra che partendo dalle culle nordiche, Danimarca, Svezia e Norvegia, si irraggiano verso tutte le coste e i confini estremi, dallIrlanda ai centri del dominio franco, dai boschi e dalle pianure fluviali dellEuropa orientale alla Spagna fino alla calda Bisanzio, dove i vichinghi si posero al servizio del fulgore dei Cesari.
Ma il capitolo più straordinario dellepopea (meglio sarebbe dire saga, dal vichingo sagamadhr, il clone dellaedo ellenico, il narratore di professione che ri-raccontava nelle serate invernali le puntate della tradizione, radicate nella memoria) resta il balzo extra-continentale a Vinland, la Terra della Vite (Terranova, il Labrador, forse la costa statunitense presso Boston, secondo alcuni perfino il Minnesota, oltre i Grandi Laghi) conquistata dai trampolini di lancio dellIslanda, Terra del Ghiaccio, e della Groenlandia, Terra Verde, mezzo millennio prima del tardivo sbarco di Colombo nel nuovo mondo.
Il tratto più impressionante del vichingo è la poliedricità. Meritevole dellepiteto che Omero consacrò al sagace Ulisse, polytropos, «dal multiforme ingegno», luomo del Nord, nato contadino in lotta con lasprezza di vastitudini gelide e avare, è insieme artigiano e mercante, guerriero e pirata, colonizzatore e manager dimpresa, anche se il suo impulso interiore più indomabile è di partire, sulle onde, per esplorare e allargare allinfinito il raggio dazione. Politicamente, è un garbuglio fecondo. Leale alla sippe, la «stirpe», il vichingo non rinuncia mai alla sua indipendenza. Si aggrega ai capi tribali, ma nella dura scorza contadina e marinara brilla la scintilla democratica, se tra i marosi, quando urge la decisione definitiva, il capitano del microcosmo mobile, la nave, drakkare, se è armata a battaglia e gonfia al vento vele oblique di porpora, knorr, se stiva merci, bestiame e famiglie, convoca lequipaggio al piede dellalbero, e condivide la responsabilità dellordine.
Molteplice, sulla fondamentale unità della nazione, il nome: vichinghi (dal latino vicus, «mercato», wic in anglosassone, wik in franco, ma forse anche da wiking, il «corsaro» che espatria per preda e per ansia di nuove lontananze); normanni, «gente del Nord»; ascomanni, o «uomini dellEsche», il frassino dei loro fasciami; rus, per gli slavi, vale a dire «gente da remo»; madjus, «diavoli pagani» per gli arabi, che con i poeti viaggiatori Ibn Fadlan e Amin Razi non celarono lammirazione per uomini «rossi e alti come palme da dattero».
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