«Villa Rosmer», la lotta dei sessi Ibsen come un noir di Hitchcock

Viviana Persiani

Quale occasione migliore del centenario della morte di Henrik Ibsen per rendere omaggio alla sua produzione meno frequentata, scoprendo delle nuove chiavi di lettura di testi, magari fino a poco tempo fa considerati poco significativi. In collaborazione con l’ambasciata norvegese e con il consolato di Norvegia, spinti dall’occasione per promuovere una serie di iniziative in Italia e all’estero per commemorare una figura artistica del calibro di Ibsen, il Teatro Litta offre il suo contributo artistico-teatrale. Sul palco di corso Magenta va in scena, in prima nazionale, Villa Rosmer, con la regia di Antonio Syxty.
«Dopo Casa di bambola di qualche anno fa, che saremo felici di riprenderemo proprio per celebrare l’anniversario della morte dell’autore - racconta Syxty -, ho voluto abbracciare questo testo che lessi quando ero molto giovane; allora mi resi conto che lavorare a un tale lavoro sarebbe stato un rischio registico. Ora, dopo aver maturato una certa esperienza, ho ripreso in mano un’opera che gode di parecchie traduzioni, ma di allestimenti teatrali sperimentali, frutto di operazioni registiche che hanno preso solo in prestito le parole di Ibsen».
Una sfida, di quelle che Antonio Syxty è solito raccogliere con entusiasmo e con la passione di un regista che va oltre la parola, analizzando simboli e significati, studiando i personaggi senza leggerli solo attraverso la loro psicologia.
«In effetti, sulla scena non devono parlare le psicologie dei protagonisti, bensì le loro anime e proprio per questo ho cercato, attraverso la scrittura di Ibsen una chiave ideale per la messinscena di questo lavoro difficile e complesso. Non ho puntato sull’argomentazione politica, né su quella degli ideali: secondo me il filo conduttore di tutto il lavoro è la netta divisione tra il mondo femminile e quello maschile. Quando uno dei due si sacrifica, l’altro non riesce a comprenderlo e solo nel drammatico momento della morte vi è un avvicinamento».
Rosmer, dopo il suicidio della moglie Beate, vive con Rebekka, ex dama di compagnia della donna scomparsa. Questa nuova amica rifiuta però continuamente e misteriosamente la proposta di matrimonio del vedovo. Il passato di Rebekka riemerge con ossessione creando un vortice di ambiguità attorno al suicidio di Beate. Il dramma, letto come metafora dell’incrollabile desiderio di felicità che c’è in ogni uomo, propone al pubblico un’occasione di presa di coscienza della debolezza e della miseria umana.
«Il testo privo di definizione, misterioso, scatola di qualcosa che sfugge alla comprensione umana, è occasione di riflessione sul tema del sacrificio. Ho condotto il mio studio e la mia analisi cercando di sviscerare il senso di ciò che è avvenuto all’inizio, quindi del suicidio di Beate, facendo particolare attenzione anche ai simboli; ad esempio Rebekka, una donna che arrivava dal nord più selvaggio, portava il nome dell’ultima strega bruciata. Insomma, le reticenze ibseniane avvolgono sempre i testi dell’autore norvegese in un’aurea di mistero e proprio per questo, con l’aiuto di Andrea Taddei, che ha curato la scenografia e i costumi, ho dato vita a uno spaccato di film noir, quello alla Hitchcock».
«Suggestionato da un fotogramma di Shining - racconta Taddei - ho creato una scenografia fuori scala, che sembra grandissima e poi in proporzione con gli attori si riduce al massimo.

Una scena astratta, lontana dalla realtà circonda i protagonisti monocromatici, abbigliati con costumi realizzati da Anna Cardani con i giovani dell’atelier di Moda del corso di Fashion Design di Naba-nuova, non caratterizzati dai colori, proprio per esaltare la dimensione emotiva dei personaggi di questo dramma».

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