"Vinco lo scudetto e vado a fare il nonno"

Il tecnico viola e la sfida alla Juve: "Per me è un ricordo, per i miei giocatori è pressione. Se riusciamo a reggerla... Sono 5 anni che stiamo in alto, il titolo non è un miraggio. E dopo? Mio figlio si sta per sposare, dunque sono pronto"

"Vinco lo scudetto 
e vado a fare il nonno"

Firenze - Radio Lady è a tutto volume. Nei taxi, alla stazione di Santa Maria Novella, nel Bar Stadio di fronte al Franchi. Ascolta. Dice che l’arbitro di Juventus-Fiorentina è nemico. Telefona Enrico: «È uno scandalo. Ci vogliono giù». Sette chiamate in coda, dicono tutti la stessa cosa: il complotto. C’è la Juve, qui non è normale. C’è il mondo contro, qui è qualcosa di già visto. Poi vedi Cesare Prandelli e fai inversione. C’è sempre la Juve però è uguale al Palermo, al Parma, al Liverpool. «Mi scusi un attimo»: fa un numero sull’iPhone, si allontana, torna dopo 32 secondi. Si comincia: Manuela, il calcio, la famiglia, il lavoro, i figli, le vittorie, le sconfitte. Lo schema della vita.
Juventus-Fiorentina. Qui sono tutti matti, lei no. Che cosa vuol dire?
«Vuol dire capire. Io devo capire soprattutto se questa squadra riesce ad andare a Torino e dimostrare di essere cresciuta. Al di là del risultato, al di là di tutto. Voglio capire se sappiamo reggere le pressioni».

E per lei che cos’è?
«Per me è un ricordo. Io ho passato sei anni a Torino: di quella Juventus oggi non c’è più niente. Però entrare al Comunale significa ricordare lo spogliatoio, Boniperti che arrivava, le amicizie, i rapporti. È un flash, perché poi ti concentri sulla partita e ti dimentichi tutto. E devi anche essere veloce a farlo».

Crede davvero nello scudetto a Firenze?
«E perché no? Sono cinque anni che stiamo lì in alto, è normale crederci».

Ha detto: «Il calcio è spaventato dalla normalità». Perché?
«Forse il mondo del calcio non sa neanche cosa sia la normalità. È un mondo che viaggia parallelo a quello reale, quindi quando una persona dice cose normali, fa gesti normali, compie scelte normali, spaventa. Ci si prende troppo sul serio».

I calciatori sono felici?
«Sono felici a momenti, come tutti. Però invece di inseguire la felicità dovrebbero cercare la serenità. La consapevolezza di poter fare per dieci anni un lavoro fantastico».

Deve scegliere un calciatore: prende il più forte, o il più intelligente?
«Nelle giovanili dell’Atalanta chiedevamo di portarci le presenze a scuola e i voti. Volevamo che fossero preparati ed educati, poi però ci scontravamo con la logica dei dirigenti più anziani che dicevano: “Non siamo i servizi sociali. Se prendono qualche 5 fa niente, noi dobbiamo trasformarli in professionisti”».

Se succedeva nelle giovanili, vuol dire che non c’è speranza...
«Se un giocatore ha talento, ma poi è vuoto, si perde. Diranno sempre: “Non è stato fortunato, non ha trovato l’ambiente, non s’è capito con l’allenatore”. No, la verità è che si perdono perché non hanno basi».

E lei quanti ne ha visti così?
«Tanti. Però ho visto anche il contrario».

Chi?
«Io ho avuto Carraro negli allievi dell’Atalanta. Dovevamo fare le convocazioni del torneo di Viareggio, lui mi fermò e mi disse: “Guardi mister, io non posso, ho delle interrogazioni importanti e voglio superarle. Ci tengo per me e per i miei genitori”. Me l’ha ripetuto per due anni».

Però non ha fatto carriera...
«Solo perché ha avuto una serie di infortuni. Adesso fa l’allenatore: ha fatto il tecnico qui nelle giovanili della Fiorentina».

Nella Fiorentina lavora anche suo figlio Nicolò. Litigate?
«Non capita praticamente mai. È bravo e non lo dico perché è mio figlio. Ha capacità e voglia di lavorare. Non è poco».

Vivete insieme?
«Non più. Fino a poco tempo fa eravamo tutti insieme. Io, mio figlio Nicolò e mia figlia Carolina. Lei dopo la laurea in lettere fa una specializzazione a Bergamo e fa la spola con Firenze. Nicolò, invece, ora si sposa ed è andato a convivere con la sua futura moglie».

S’è mai immaginato nonno?
«È il mio sogno. Ci penso ogni giorno, vorrei essere un nonno giovane. Mi vedo con la carrozzella al parco che chiacchiero con gli altri nonni. È splendido diventare padre, ma credo che essere nonno sia qualcosa di più».

Lei parla sempre del suo paese, Orzinuovi. Che cos’ha di speciale?
«La solidarietà tra le persone. È tipica dei paesi. Io ero ragazzino e ricordo che mia madre mi diceva tutto, così che sapessi i problemi dei nostri compaesani e potessi comportarmi di conseguenza».

Che cosa le ha insegnato sua madre?
«Il rispetto per gli altri. Poi l’amore, il non vergognarsi di voler bene. Dimostrarlo con la testa, con il cuore, con le mani».

Ha la storia di un figlio perfetto...
«Fino alla morte di mio padre ero un teppista. Avevo 16 anni ed ero ingestibile. Prima di morire mio padre mi parlò: sentii il senso di responsabilità. Avevo due sorelle più piccole...».

Ci torna al Paese?
«Spesso. Ho casa praticamente a due metri dall’oratorio. Dovevo solo scavalcare un muretto ed ero lì. È un Paese con una piazza che è il salotto: avviene tutto lì, è come se ti proteggesse».

E lì che incontrò sua moglie Manuela?
«Sì. La piazza è tutto. È amore, cuore, passione. Manu la incontrai una domenica pomeriggio. Giocavo nella Cremonese, in B. Avevo voglia di cioccolata calda. Lei era con una sua amica, ci guardammo e ci piacemmo subito. Il giorno dopo, con una scusa, la andai a prendere a scuola».

Manuela è morta quasi due anni fa. Soffre ancora?
«...Non direi che sofferenza sia la parola giusta. Anche perché quando ne parliamo soprattutto con i miei figli, abbiamo sempre un ricordo fantastico. Pensiamo sempre alle cose che ci hanno dato gioa, ai suoi sorrisi. Sono dei momenti meravigliosi. Poi a volte non è così. Ci sono volte in cui si ha paura di tornare a casa».

Ha detto che la fede l’ha aiutata durante la malattia di sua moglie. L’aiuta ancora?
«C’è una persona fantastica. Si chiama Frà Elia: averlo conosciuto è stato un dono. È una di quelle persone con cui ti si apre il cuore: sei tu con lui. È stato molto importante per noi: abbiamo vissuto un dramma, ma nell’ultimo periodo è stato tutto molto sereno. Si era creato qualcosa di magico, potevi sentirlo, potevi palparlo, come se fosse una presenza. Credo che senza di lui Manu sarebbe morta prima».

Sembra più tranquillo, adesso. A volte è felice?
«In certi momenti la sento la felicità. Però il mio obiettivo è trovare una serenità, sia interiore, sia di rapporti».

Ha mai pensato di smettere?
«Sì. È successo. Mi ha tenuto su la passione».

Voleva iscriversi al liceo artistico, poi fare l’architetto. S’è ritrovato geometra, ma con la passione dell’arte. Perché l’arte?
«Passione. Mi è sempre piaciuta, poi l’ho coltivata ancora di più quando ho conosciuto un artista: Fausto Bertasa. Mi piace essere un collezionista, mi piace frequentare gli artisti. Riescono a farti vedere una prospettiva che non avresti mai pensato».

E chi è un artista nel calcio?
«Emiliano Mondonico».

Un amico...
«Abbiamo giocato insieme, poi me lo sono trovato allenatore a Bergamo, a fine carriera. Io avevo deciso di smettere, perché sentivo un peso, non ce la facevo più col ginocchio: ogni partita dovevo fare un’infiltrazione di antidolorifico. Lui fu straordinario. Avvisò la società: “Prandelli smette, proponetegli di allenare i ragazzini”». Fece tutto lui e non me lo dimenticherò mai. Mondo è dipinto come lo stratega un po’ burbero, invece ha un’anima straordinaria, una sensibilità unica».

Però lei lo fece impazzire una notte...
«Mi provocò. Anzi ci provocò. Eravamo io e Stromberg. Facevamo scherzi a tutti i compagni e ogni volta gli altri ci dicevano che non avremmo mai avuto il coraggio di farne uno al mister. Anche lui era convinto che non l’avremmo toccato. Invece successe».

Che fa non lo racconta?
«Ci facemmo dare un passepartout ed entrammo nella sua stanza: gli smontammo tutto pezzo per pezzo. Comodini, armadio, letto, doccia, lampade. Quando rientrò e se ne accorse, cominciò a urlare come un matto. Se non ci fossero stati i dirigenti avrebbe dormito per terra. Fu divertente, ma non fu l’ultimo scherzo della carriera».

A chi li ha fatti gli altri?
«Il più bello ai ragazzi della primavera dell’Atalanta, durante il Viareggio del 1993».

E di nuovo non lo racconta?
«In albergo trovai un pacco anonimo, dentro c’era una maschera da diavolo e un biglietto: “Saprai farne buon uso”. Che faccio, che non faccio. Mi viene l’idea: la metto su, prendo una coperta e comincio a bussare alle porte di tutti. Chi scappava, chi si difendeva coi cuscini, chi urlava».

Coraggiosi...
«Tacchinardi se ne andò in bagno per la paura. L’unico spavaldo fu Morfeo. Tipico: mi vide e si mise in posizione di attacco, come per darmi un cazzotto. Per non prenderlo mi tolsi la maschera: ci facemmo una risata».

Le mancano i

ragazzi?
«Ogni tanto sì».

Ma è meglio fare il calciatore o l’allenatore?
«Il calciatore, non solo per motivi anagrafici. È un lavoro meraviglioso, basta solo capirlo. In quel momento cambia la vita».

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