Violante, il revisionista che mira alla Consulta

«Imbarazzo» per i valori del Pci che portarono alle foibe Una mossa per accreditarsi a destra e succedere a Flick

Non sappiamo se Luciano Violante si vergogni o meno di essere stato comunista. Di certo, come ha scritto ieri sul Riformista, ha ammesso di sentirsi una specie di «assassino» per quell’appartenenza «al Pci e alla rigorosa educazione politica» e a «quel complesso di valori civili e repubblicani» che fecero da humus per le foibe titine, la mattanza del triangolo rosso del Dopoguerra e per l’odio sociale che animò i cattivi maestri delle Brigate rosse, vecchie e nuove. I comunisti, disse una volta Armando Cossutta, «non hanno nulla di cui vergognarsi».
Più che una frivola doppiezza di nuovo conio, l’ex custode dell’ortodossia comunista subalpina pare essersi convertito all’etereo «ma-anchismo» etico del suo segretario Veltroni. Ma il pentimento e la vergogna forse non fanno parte di quel «complesso di valori» che gli sono stati insegnati. E non è nemmeno la prima volta che Violante si muove come un gambero rosso per arrivare in alto. Non è un mistero infatti che punti a convincere il Parlamento che è lui l’uomo giusto per succedere all’ex Guardasigilli Giovanni Maria Flick alla Corte costituzionale. Per farlo, ha bisogno del voto di due terzi del Parlamento. Meglio levarsi i panni del pasdaran manettaro e accreditarsi «a destra». La sua marcia di avvicinamento era iniziata coi «ragazzi di Salò», con quella riflessione invocata «sui vinti di ieri». La scomposta reazione della sinistra fu affidata a un esperto: l’ex camicia nera pentita Giorgio Bocca. Correva l’anno 1998: «Non credo che con queste sortite lei renda un servigio al suo partito - scrisse Bocca su Micromega - perché sembrano confermare l’ecumenismo che arriva dalla Terza internazionale: “Ciò che è illecito se commesso dagli altri diventa lecito se commesso da noi”». E ancora: «Se lei ha fatto le sue sortite per diventare presidente della Repubblica, temo che abbia sbagliato». Allora gli andò male, oggi probabilmente pure.
L’ultimo obolo per la Consulta è stato forse il più doloroso. Condannare la stagione del giustizialismo a fini politici, inaugurata da Violante quando era presidente della commissione Antimafia e ancora oggi in ottima salute. Una volta incassata l’uscita dalla scena politica dei propri avversari, da Craxi ad Andreotti, e abbandonata (forse) la speranza di fare altrettanto con Berlusconi, avrà pensato, sarà sufficiente denunciarla a posteriori. «Spero che la destra eviti di usare la giustizia come arma politica», disse al Giornale. Un po’ perché il pacchetto di voti che l’odio politico per via giudiziaria «rende» da 15 anni a questa parte oggi è in mano a Di Pietro, di cui in passato il «suo» Pci fu accusato di essere uno dei mandanti. «Ma anche» perché il vento è cambiato per il suo Pd. «La politica - disse Violante al Messaggero il 27 dicembre scorso, dopo l’arresto del collega di partito Luciano D’Alfonso, sindaco di Pescara - non è luogo di corruzione indipendentemente dalle prove». E soprattutto «è necessario rifuggire la linea giustizialista, che è incompatibile con una funzione riformista». Perché - sempre parole sue - fare «della magistratura una sorta di consulta permanente di salute pubblica non è compatibile con uno Stato democratico».

Detto da chi, solo qualche anno fa, urlava «Berlusconi non è Craxi ma ci sono drammatici elementi di continuità», oppure «è cambiato in parte il ceto politico ma, all’interno del vecchio contenitore il sistema e la cultura sono gli stessi», e ancora «contro le accuse di corruzione i politici gridano al complotto della magistratura, attaccano i giudici per farli apparire di parte e quindi delegittimare le loro indagini», suona come una beffa. Ma questa, come direbbe Violante, è un’altra storia.

felice.manti@ilgiornale.it

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