"Violenza e bande alla Mad Max prima della nostra resurrezione"

A Torino Davide Longo, l’autore del romanzo italiano più interessante degli ultimi mesi: "I barbari sono alle porte? Beh, mi troveranno alla macchina per scrivere"

"Violenza e bande alla Mad Max 
prima della nostra resurrezione"

Scrivere romanzi con l’apocalisse sulla nuca - e con il bacio di Alessandro Baricco sulla fronte (il patron della scuola Holden ha dichiarato in un’intervista che tra dieci anni si parlerà ancora di Davide Longo, «oggi il più interessante tra gli emergenti») - non deve essere una passeggiata. C’è da sperare, però, che la «fine dei tempi» giunga a noi un po’ diversamente da come Davide Longo l’ha descritta in L’uomo verticale (Fandango, pagg. 396, euro 18), racconto di un’apocalisse catastrofica fin nei dettagli, senz’ombra di pietà e parecchio dolorosa, un supplizio collettivo che va per le lunghe tra sangue, crimini, stupri, bande armate alla Mad Max, e gli «Interni» (tra le righe, gli ultimi abitanti delle Langhe) in lotta feroce con gli «Esterni», tutti quanti ridotti a «involucri capaci di uccidere, violare e infine svenarsi». I critici lo hanno paragonato a La strada di McCarthy, ma Longo, senza le tensioni religiose dell’americano, ha raccontato un’apocalisse più pop, trasversale e perturbante.

Piove da settimane, come in Blade Runner. Il vulcano islandese si è riacceso. Le Borse non si reggono in piedi. Uno tsunami di petrolio lambisce gli Stati Uniti. Arriveremo a stasera? Dormiremo nel nostro letto?
«Credo di sì. A ogni modo, L’uomo verticale non è la storia di una fine tout court, ma di un’apocalisse nel senso etimologico: rivelazione, rinnovamento. Può darsi accada attraverso passaggi dolorosi, violenti e umilianti, ma sarà nella direzione di una purificazione, di una speranza, anche se guadagnata per il rotto della cuffia. Da un certo punto di vista, McCarthy era più disperato».

Ma tutti e due avete scritto libri molto violenti.
«Confrontarsi con un uomo che ritorna ai primordi, contro la sua volontà, significa affrontare la dimensione della violenza, che appartiene a tutti. Ma non darei alla violenza sempre una connotazione negativa, poiché la sopravvivenza fisica è violenta. Fermo restando che c’è differenza tra un leopardo che uccide una gazzella e una guerriglia messa in piedi per avere una Jacuzzi. Nel mio libro racconto entrambe queste violenze: la prima è sensata, la seconda è sadica e molto difficile da trovare in natura. Appartiene più all’uomo».

Nella Strada di McCarthy non sopravvive più nemmeno la natura.
«Nel mio libro sì. Quel cinico di Lacan diceva che purtroppo l’animalità è inaffondabile: se giungessimo alla distruzione di tutto il mondo vivente avremmo il segno che l’uomo è capace di qualche cosa, il segno della superiorità di un essere rispetto a tutti gli altri. Non la penso così. L’animalità è per l’uomo un valore positivo: ci induce per empatia a non distruggere il nostro ecosistema. L’uomo diventa apocalittico proprio quando abbandona l’animalità».

Tuttavia, spesso leghiamo un’eventuale apocalisse proprio alla natura...
«Ma siamo noi che interpretiamo un evento, a esempio la nube di ceneri del vulcano islandese, come un monito apocalittico. Per un abitante dell’Africa che non prende aerei, la nube non significa niente. L’apocalisse è sempre relativa, spesso solo ai nostri bisogni. E se arriverà, non sarà certo per vie naturali, ma per la nostra mancanza di educazione. Intendo: la cattiva educazione che stiamo dando ai nostri figli è molto più apocalittica per la nostra civiltà di tutti i surriscaldamenti climatici messi insieme».

Eppure si parla spesso di apocalissi provocate da una natura ribelle alle sevizie dell’uomo.
«È quel genere di narrazioni che l’Occidente, che sta attraversando una fase di concreto declino storico, usa inconsciamente per tranquillizzarsi. Questi racconti hanno comunque una funzione di anticorpo: gli scrittori possono usare la cornice apocalittica per lanciare i loro allarmi. Ricordo 1984 di Orwell, ma anche La nube purpurea di Shiel e, perché no, La peste scarlatta di London. I lettori ne rimangono incantati».

Il complesso di Nerone, la fascinazione per il grado zero...
«Quella da cui partono tutti i romanzi apocalittici. È la voglia di mettersi alla prova in un mondo privo di tutte le sicurezze che garantiscono il nostro benessere ma che, allo stesso tempo, intorpidiscono le nostre qualità. I mass media, editori inclusi, giocano molto sull’ipotesi che l’universo non sia antropocentrico: l’idea mette i brividi, vende bene, nascono collane di libri e telefilm. E uno scrittore, in quanto tale, concorre all’impresa aiutando a immaginare altri mondi possibili, compresi quelli non umani o disumanizzati, come lo è stata anche la Terra. Non lo fa per pessimismo apocalittico, almeno non io».

Per questo Baricco l’ha intercettata tra coloro che «si salveranno»?
«Credo ci accomuni una visione artigianale della scrittura, più che i temi della nostra narrativa, anche se mi ha interessato la riflessione di Baricco sui “barbari alle porte”.

Nel senso che quando arriveranno mi troveranno in bottega, a lavorare al mio quarto romanzo».

Un’ora con... Davide Longo, domani alle ore 20 presso il Caffè Letterario del Lingotto, a cura di Fandango Libri, interviene Daria Bignardi.

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