Violenza, vomito e poesia La redenzione di Nick Cave

Esce il libro "The sick bag song", quaderno di racconti, canzoni e ricordi raccolti tra una città e l'altra durante una tournée

Violenza, vomito e poesia La redenzione di Nick Cave

Una volta Nick Cave era talmente fatto di eroina che appoggiò il suo capo sulla candela accesa sul tavolo e, se qualcuno non avesse spento i suoi capelli in fiamme, ora non saremmo qui a parlare del suo nuovo libro. Lo ha scritto l'anno scorso volando da una parte all'altra del Nord America durante il tour con i Bad Seeds: 22 concerti, 44 voli e quindi 44 di quei sacchetti di carta che ogni passeggero si trova davanti al proprio sedile. In inglese si chiamano «Sick bag», ossia sono i sacchetti dentro i quali chi soffre decollo o atterraggio può vomitare. Il libro di Nick Cave in uscita ora si intitola proprio The sick bag song , in pratica «La canzone del sacchetto per vomitare».

Un titolo che va ben oltre la provocazione.

Tutto il repertorio di Nick Cave sin dai suoi primitivi Concrete Vulture di fine anni '70 avrebbe potuto essere composto su di un sacchetto del genere. Violenza insopprimibile. Istinto. Nick Cave è il paradigma di una rockstar maledetta che per ora si è evitata il tragico epilogo. È un'icona. È di culto. Ha pure avuto un bel po' di amanti che, prese una per una, potrebbero legittimare la virilità di qualsiasi rockettaro: dalla musa ispiratrice dei primi Bad Seeds, ossia Anita Lane, fino a Pj Harvey con la quale cantò nello standard folk americano Henry Lee . Eppure Nick Cave, voce baritonale, capelli ormai ostentatamente tinti di nero pece, è sempre andato ben oltre questi luoghi comuni da gossip. Se ne è sempre fregato, al punto da collaborare nel 1996 con Kylie Minogue, non proprio una ribelle, dopo aver recitato se stesso nel Cielo sopra Berlino di Wenders, in sostanza i due confini estremi dell'arte, il pop più pop e il cinema più chic. Ma nella vita di questo esagitato sono soltanto una parentesi. Quando arrivò a Londra all'inizio degli anni Ottanta, proprio mentre la scena musicale orfana del progressive rock si stava biforcando tra post punk e new romantic, divenne famoso perché sul palco era un ossesso a capo di una improbabile band dal nome improbabile, The Birthday Party, capace di fare da colonna sonora alle sue follie grondanti eroina e alcol. Quando andava bene, era uno show ai confini della realtà. Quando andava oltre, finiva in rissa. I giornalisti di Londra erano pazzi di lui perché Nick Cave «faceva titolo» e ogni volta garantiva almeno un articolo bello colorito di quelli che piacciono alla stampa scandalistica. È stato questo il detonatore che ha garantito a Nick Cave di esplodere nel resto del mondo più per popolarità che per vendite. È un «must follow» perché sorprende sempre. Nell'anno domini 2015 Nicholas Edward Cave, nato in un villaggio australiano nel 1957, per decenni rockstar a tutti gli effetti compresi quelli lisergici, è quasi un travet , va in ufficio alle otto del mattino e scrive canzoni con la puntualità di un impiegato del catasto. Ma è ben altro. In bilico sul filo musicale lunghissimo e sottile che unisce Iggy Pop a Leonard Cohen, Nick Cave è diventato un brand a prescindere dalla band: ogni tanto è apparso con i più essenziali e punk Grinderman (sciolti a bruciapelo nel 2010), ma molto più spesso è con i suoi Bad Seeds che sono riusciti a sopravvivere persino all'abbandono di Mick Harvey, vero maestro di cerimonie alcoliche, creative e stupefacenti della vita di Nick Cave. In tutto questo furore esistenziale, che ha come comune denominatore il pessimismo purificante e spesso alla ricerca di una redenzione in nome di Dio, il figlio di un insegnante e di una bibliotecaria è riuscito a scrivere poesie e racconti in due decenni diversi ( King Ink e King Ink II dell'88 e del '97), ha pubblicato due romanzi, il bello E l'asina vide l'angelo e il sostanzialmente brutto La morte di Bunny Munro , e ha compilato pure il libretto per un'opera di Nicholas Lens, la marginale Shell Shock del 2014. Perciò ormai, in tutto questo turbinio di alti e bassi, di vampate e immediati crolli depressivi, di fidanzamenti e figli e colonne sonore (da ascoltare quella di Lawless di John Hillcoat), il minimo che può fare Nick Cave è scrivere di getto. Ovunque. Comunque. E allora questo libro (che trovate anche su www.thesickbagsong.com in due edizioni diverse e quella a tiratura limitata di 220 copie costa 1437 dollari) è stato scritto in volo, ma non nel senso che piaceva una volta a lui. Proprio in volo. «Quando ero sull'aereo per Nashville ho pensato, cazzo, devo scrivere delle canzoni e, visto che non avevo un notebook con me, ho preso i sacchetti e ho iniziato a scrivere sopra i primi versi. Non sapevo che cosa sarebbero diventati e quindi li ho chiamati Sick bag song . Anche sul volo successivo mi è capitata la stessa cosa e quindi da allora ho capito che non si sarebbe trattato soltanto di una canzone».

Tutt'altro.

È una specie di Periscope di Nick Cave, una vista immediata sul suo talento e sulla sua storia senza se e senza ma. Da quando incontrò Bob Dylan nel backstage di Glastonbury nel 1998: «Mi ha detto “Mi piace quello che fai”. “Anche a me piace quello che fai”, gli ho risposto. Quasi morivo. Ero così svuotato che avrei potuto svanire immediatamente». Dopo si gettò a capofitto «nel placido, paralizzante torpore di una dose di eroina». Ma ora bye bye eroina, nel peggiore dei casi. O farewell, nel migliore. Nick Cave è out, ha smesso di drogarsi e quindi scrive meglio.

I suoi due ultimi album sono i migliori da un decennio e questo libro ne è la stravagante didascalia come a dire: cari fan, ora i trip me li faccio solo cantando e scrivendo quindi, vi piaccia o no, questo è il vero specchio di me.

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