Roma - Lo spirito del tempo? Un pubblico misto, vecchi, giovani e ragazzini, assiepati alla meglio, in una domenica di maggio allagata di sole, dentro alla sala buia del Farnese Persol, dove, nell’ambito della rassegna «Generazioni a confronto» (a cura di Paolo Luciani e Cristina Torelli) si proietta uno dei migliori esempi di commedia all’italiana, I compagni di Mario Monicelli, anno 1963, quello del nostro primo governo socialista (era Moro-Nenni). In fondo, resta seduto nell’ombra Paolo Virzì, il cui ultimo film, Tutta la vita davanti, l’ha consacrato cattedratico del nostro genere più noto, all’estero. Tant’è che l’appassionante racconto monicelliano, interpretato da un Marcello Mastroianni nello splendore dell’erba, come professor Senigaglia, idealista ebreo vicino agli operai, nella Torino primonovecentesca, è conservato nelle cineteche Usa (titolo: The Organizer), tra i cento film da salvare. E sorride di tenerezza, il pubblico cinefilo, quando Mastroianni, affamato agitatore di popolo, fa zuppetta in una tazza di latte. E verserebbe qualche lacrima, la gente che non si rassegna all’ingiustizia, quando sul grande schermo cade a terra un bambino, che chiedeva di sopravvivere, lavorando tredici ore in fabbrica, anziché sedici. È qui che si saldano le emozioni generazionali, è qui che Monicelli passa il testimone a Virzì, è qui che il vecchio governo è caduto e il nuovo avrà tutto da rifare. Il tema del lavoro resta, insomma, il perno intorno al quale girano ancora, nell’Italia che affronta un cambiamento epocale, tante, troppe esistenze appese a un filo. Sempre sul punto di staccarsi.
Caro Paolo Virzì, più volte ha detto d’avere un debito, nei confronti del film monicelliano I compagni, fonte d’ispirazione per il suo Tutta la vita davanti. Può dirci in che cosa consiste?
«Consiste nell’affetto che provo per quella Torino operaia dei primi del Novecento. Perché, in tema di diritti, stiamo ricominciando da capo. È finita, infatti, la stagione delle grandi masse operaie, tutelate dai sindacati. Ora le fabbriche sono dislocate in Cambogia, in Cina, in Vietnam, dove i diritti umani non esistono e si lavora sedici ore al giorno. Ecco che abbiamo un altro dolore».
È sul modo di affrontare queste tematiche che la sinistra ha perso, secondo lei?
«Cito un esempio personale, di certi miei parenti, che per anni hanno votato Pci, Ulivone, Ulivetto, Pd, finché quest’anno, loro che lavorano in una fabbrica livornese, la Delfi, hanno votato per chi, in campagna elettorale, aveva promesso di togliere le tasse dagli straordinari. Si vota Lega, o Pdl, perché i salariati non arrivano neanche alla metà del mese».
Del resto, nei suoi film descrive un’Italia divisa in due: di là la sinistra al caviale, il popolo delle terrazze, come in Ferie d’agosto e Caterina va in città, di qua la gente normale, forse burina, che però, votando con la pancia, premia la destra...
«Certo che il problema della sopravvivenza, nelle famiglie, esiste ed è una vera emergenza nazionale. E fa tornare gli operai indietro».
Il mondo del cinema, abbastanza schierato a sinistra, come lei, attende le nuove decisioni d’un governo che, si teme, non sarà amico dei cinematografari, quanto il precedente. Lei cosa ne pensa?
«Non ho pregiudizi di sorta. Tuttavia, preferirei che certe gestioni non venissero affidate a chi, come il collega Pasquale Squitieri, non ha seguito il cinema italiano degli ultimi vent’anni».
Crede che la Festa del cinema potrebbe conoscere stagioni sottotono?
«Per ora, resto fiducioso. Ho sentito, a riguardo, alcune dichiarazioni, volte a difendere e a proteggere il prodotto cinematografico nazionale, rispetto ai lustrini di Hollywood. Francamente, non sono preoccupato: anzi, sto già pensando al mio prossimo film».
È d’accordo con chi dice che un film come I compagni, con la sua sceneggiatura letteraria, firmata Age, Scarpelli e Monicelli,
«Oggi tutto ha da essere più veloce, però è proprio il potente tocco vintage del film di Monicelli e lo stile dell’epoca a rendere immortale e preziosa quella testimonianza».
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