Visita turistica alla Biennale tra noia, sudore e "nonsense"

Installazioni improbabili, un catalogo di un chilo e un senso di smarrimento... Viaggio nella culla del postmoderno dove niente è comprensibile ma tutto è "bello"

Visita turistica alla Biennale 
tra noia, sudore e "nonsense"

da Venezia

Sono uno stereotipo. Un pastore sardo, un bracciante calabrese, un cafone pugliese, un camallo ligure, un militante padano, un padroncino del Nord-Est, un neo laureato da laurea breve, un precario da call center, un casalingo di Voghera... Mi è stato detto che per essere a passo con i tempi e farmi una cultura devo andare a vedere la Biennale dell’Arte e così eccomi qua, fra l’Arsenale e i Giardini: mi hanno dato un catalogo che pesa mezzo chilo e a ogni tappa mi riempiono di carta.

Non sapendo cosa scegliere, mi muovo nella logica del più forte e comincio dagli Stati Uniti. Mi innamoro subito del carro armato con i cingoli all’insù che campeggia all’ingresso del suo padiglione, e ancor di più della cavallona bionda made in Usa che in magliette e calzoncini ci corre sopra su un tapis roulant e così lo mette in moto. Lei suda e io penso che l’arte è fatica... Nello stand c’è una sorta di statua della Libertà chiusa in un lettino abbronzante e un bancomat dentro un gigantesco organo: se fai un prelievo si mette a suonare da spaccare i timpani. Io sono uno stereotipo, un pastore sardo eccetera, ma non sono scemo e non tiro fuori la mia carta di credito per dare vita all’opera d’arte: se l’organo-banca-bancomat se la mangia, chi mi rifonde? Obama?

Al confronto degli Stati Uniti, Francia e Inghilterra mi deludono. La prima ha messo su una specie di rotativa dove scorrono non le pagine di un giornale, ma incessantemente il volto di un neonato. Su uno schermo, ci sono tanti frammenti di immagini di giovani e di vecchi: se premi un pulsante e si compongono a formare un volto, ti porti a casa l’opera, mi viene detto, vale a dire la faccia, perché altrimenti ti ci vorrebbe un hangar per contenere la rotativa. Il titolo di tutto è Chance, fortuna. «È un interrogativo sull’universale e sull’unico» mi spiegano. Non capisco, ma annuisco, sono uno stereotipo, un pastore sardo eccetera, ma sono educato.
Gli inglesi invece hanno allestito una prigione, o almeno così mi sembra di capire: un labirinto di celle, spazi diroccati, corridoi, soffitti bassi, arnesi... Ci si entra in un numero limitato e bisogna stare attenti a non prendere una craniata o una storta. L’arte è pericolo, mi ripeto come un mantra. La galera britannica in realtà è «un’installazione parassitaria che si è stabilita in un edificio seicentesco», «un collegamento sull’asse est-ovest/ovest-est» leggo sul catalogo una volta tornato all’aperto. Capisco che c’è sempre un sotto-testo, (o un meta-testo? bah) che mi sfugge e mi riprometto più attenzione.

Così, di fronte alla Russia giungo preparato. Empty Zones si chiama l’allestimento, spazi vuoti insomma, e infatti non c’è niente se non delle foto di luoghi deserti e di gruppi di persone, dei taccuini scritti in russo, delle panche. Sarà la memoria dei gulag azzardo fra me, e invece è la memoria di una performance. Funziona così: l’artista porta il suo pubblico fuori Mosca, lì fa una performance (non chiedetemi quale, non si sa) e poi sta al pubblico stesso ricordarla, scrivendoci sopra. Il risultato è l’opera. L’arte è collettiva, mi dico, ma comincio anche a capire il mezzo chilo del catalogo: serve a spiegare quello che ti sfugge, nonché le intenzioni dell’artista e insomma la carta non è mai abbastanza.

Prendiamo la svedese Klare Liden. Espone dei bidoni di immondizia, neri, arancioni, francesi, spagnoli... Tu pensi che siano puri e semplici bidoni, ma invece stanno a significare «la nascosta aggressione e la ribellione potenziale sotto la superficie degli ambienti urbani e dei loro abitanti». E i Cristalli di resistenza dello svizzero Thomas Hirschhorn? Lì dove vedo uno sterminato numero di oggetti incellofanati, telefonini, televisori, sedie eccetera, c’è addirittura «la quadripartizione del campo di forme e di forze: amore, filosofia, politica, estetica». Per ora non chiedetemi di più, sono pur sempre uno stereotipo, un pastore sardo eccetera...
E la ungherese Hajnal Nemeth? C’è una macchina rottamata, un filmato su una fabbrica di automobili, un altro con due che cantano un’opera lirica. E in ungherese e io che sono uno stereotipo, un pastore sardo eccetera, già ho problemi con l’italiano... Il catalogo mi informa che cantano su un libretto basato sulle interviste ai sopravvissuti a incidenti stradali e il tutto sta a indicare come «la tempistica traumatica e puntuale di un incidente si dispieghi linearmente e ciclicamente, lasciando che l’atto della percezione e dell’esplorazione avvenga al ritmo dello spettatore».

Capisco, insomma, che io spettatore devo faticare per farmi una cultura, darmi da fare, avere un mio ritmo. Al padiglione di Israele ci sono delle pompe e delle turbine, un paio di scarpe ricoperte di sale, un video su Danzica, delle riprese di gente che traccia segni sulla sabbia... Dandomi un ritmo dovrei capire l’allegoria del tutto, «la critica al nazionalismo che indebolisce e minaccia il razionalismo e il potenziale positivo che è contenuto nella cooperazione e nell’equa distribuzione di risorse e ricchezze». Mi dondolo, mi dimeno, ma sempre pompe, scarpe e turbine vedo.
Per schiarirmi le idee vado al Pavillon for Revolutionary Free Speech del danese Thomas Kilperr. È una specie di Hyde Park Corner in legno, con tanto di megafono e un pavimento fatto con le facce di chi attenta alla libertà di stampa e di parola... Infatti c’è Feltri, Andreotti, la Santanchè, la Mussolini, la Fallaci, il Papa, Berlusconi... C’è anche Raffaele Speranzon, il leghista, spiegano Kilperr e il suo team, che fece una campagna per boicottare dalle librerie del Veneto i libri di quegli scrittori che avevano firmato una petizione a favore di Cesare Battisti... Per Kilperr e il suo trust di cervelli, Battisti è «un ex attivista di sinistra»...

È la completezza dell’informazione.
Il bello della Biennale è che è sparsa per tutta Venezia, non se ne sta solo all’Arsenale e ai Giardini. Così, con l’alibi dell’arte ti puoi vedere la città, compresi quegli spazi pubblici e privati altrimenti chiusi... E poi c’è sempre un happening, con tanto di finger food, e io che sono uno stereotipo, un pastore sardo eccetera, se mi inviti a mangiare con le mani mi fai solo un piacere. A San Vio c’è un palco che fa musica vintage anni ’70 e ’80, ma mi spiegano che non è un’installazione della Biennale, bensì una festa di quartiere. Comunque, rimedio gratis del cocomero. All’Abbazia di San Gregorio, di fronte alla Chiesa della Salute, c’è Futur Pass... From Asia to te World, cento artisti che raccontano la cultura digitale del XXI secolo.

L’opera più convincente mi sembra un Michey Mouse di plastica rosso, con un membro gigantesco, credo opera di un cinese di Taiwan, ma devo indagare meglio sul sotto-testo (o meta-testo? Bah). Sono uno stereotipo, un pastore sardo eccetera, mica un critico.

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