Mio padre morì di un cancro lento e doloroso. Alla fine, i medici dell’ospedale ce lo fecero portare a casa con la scorta di potenti antidolorifici, perché potesse passare gli ultimi giorni in famiglia. Gli stetti sempre vicino, con mamma, e morì fra le mie braccia. Ma non voglio tramandarne un ricordo lamentoso e patetico, preferisco ricordare un nostro scambio di battute che ci fece fare l’ultimo sorriso insieme.
Si discuteva già di eutanasia, allora, e il babbo sapeva che ero favorevole. Lo era anche lui, ma non per sé. Amava la vita come e più di me, e si attaccava a qualsiasi speranza di farcela, di un miracolo. Oltre ai medici volle tentare anche certi stregoni, e alla fine gli sembrava di trovare conforto e benefici persino nel Gatorade.
Uno degli ultimi giorni, in una pausa fra il dolore e la morfina, mi disse, guardandomi fra il serio e il giocoso: «Oh citto - bambino, mi chiamava bambino - ’un fa’ scherzi eh, con questa storia dell’eutanasia, che io ’un voglio morì».
«Occheddì, babbo, ’un t’ammazzerei neanche se me lo dicessi te!». E sorridemmo, mano nella mano.
Mentivo. Se me l’avesse chiesto l’avrei fatto, tanto soffriva. Non so come, ma l’avrei fatto. Perché gli volevo bene. Perché mi aveva protetto quand’ero piccolo, e ora toccava a me proteggerlo: nella vita o nella morte, ma sempre secondo i suoi desideri.
Per questo non mi pongo neanche il problema se Martin Van Der Burgt abbia fatto bene o male ad aiutare la sua Anna a morire: Anna lo voleva, e lui le voleva bene, cos’altro c’è da chiedersi davvero?
Capisco chi ne fa una questione religiosa, con la fede non si discute. Capisco meno chi ne fa un principio etico. La vita appartiene a chi la vive.
E se per compiere questo elementare atto d’amore bisogna andare in Olanda, viva l’Olanda.
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