Vittorio Grigolo, il Pavarottino «Unisco il pop e l’opera lirica»

Dalla top ten inglese, il suo cd «In the hands of love» punta a conquistare anche il mercato americano

Paolo Giordano

nostro inviato a Tivoli

E guardatelo qui, mentre entra in scena sull’onda di un’orchestra da trentacinque elementi: la platea trattiene il fiato, l’atmosfera è quella di un evento. D’altronde è sempre una questione di proporzioni. Vittorio Grigolo, con l’accento sulla prima o, in Italia passeggia ancora indisturbato; a Londra lo bloccano per strada. Qui il grande pubblico non lo riconosce; là è stato in classifica sopra Bocelli e la Bbc l’ha messo in copertina: «il tenore che fa storia». Insomma, questo ventinovenne, che è italianissimo, origini toscane e casa a Roma, è uno straniero in patria oppure, per parlar come gli inglesi, è la «next big thing», il prossimo fenomeno musicale, che lui riassume in una sola parola, «popera», e che in soldoni è il pop cantato da un tenore, con la stessa vocalità, lo stesso stile interpretativo.
Insomma, parlando di novità, questa lo è.
Le premesse ci sono tutte e non è solo una questione di numeri, che poi contano sempre meno. D’accordo, il ciddì di Grigolo In the hands of love (edito dalla Universal) è andato al sesto posto in Gran Bretagna e l’altra settimana la Pbs, che è un gigantesco consorzio di tivù americane, ha addirittura mobilitato la Villa Adriana di Tivoli per registrare, tra capitelli restaurati e mura imperiali, un concerto che andrà in onda giusto in contemporanea con la pubblicazione del ciddì negli States, a settembre. Però attorno a Vittorio Grigolo si respira proprio quell’atmosfera misurata ovattata e piena di grazia che s’immagina un tempo attorno ai grandi tenori, ai Caruso, ai Gigli che quatti quatti andarono in America portandosi dietro l’Italia e, soprattutto, la sua tradizione. «La mia è una strada che unisce il pop all’opera», dice lui.
Di sicuro è partito da lontano. A nove anni era nel Coro della Cappella Sistina, a diciotto cantava con la Vienna Opera Company, a ventitré è stato il più giovane tenore italiano a cantare alla Scala. All’Opera di Roma, Luciano Pavarotti rimase così sorpreso ascoltandolo cantare nella Tosca con lui, da presentarlo come una promessa. E lui, questo ragazzo dai modi raffinati, l’ha ricambiato la scorsa primavera debuttando in Otello nel ruolo di Cassio al Liceu di Barcellona, proprio da dove decollò la storia internazionale di Big Luciano. Nel frattempo è stato il primo a essere esonerato dal servizio militare per motivi artistici, diventando un precedente persino per i calciatori. «A differenza di altri interpreti - dice - io ho imparato sul palco. Ho cantato, e canto, opere liriche e solo ora provo a entrare nel pop. Perciò non ci può essere rivalità con Bocelli. Quando ci siamo incontrati durante un programma tv inglese ne abbiamo parlato e, sorridendo, gli ho detto di aver fatto un mestiere diverso dal suo».
E così lo vedi qui, sulle maestose architetture della Villa Adriana, a cantare brani di Stevie Wonder (All in love is fair tradotta in Se l’amore c’è), a suonare la chitarra in un mariachi spagnolo, a intonare Magia de Amor o Resta con me dispiegando i polmoni e la tecnica ma smorzandone gli eccessi e la teatralità. Insomma, controllandola a dovere, da maestro, come si impara sui palchi più prestigiosi del mondo, senza alchimie tecnologiche, senza aiuti di produttori scafati. «In scena come canti, canti. Non si può cambiare. E io voglio rispettare la nostra tradizione lirica» ha spiegato prima di iniziare il recital. E forse per questo ha rifiutato l’offerta di entrare nel Divo, il gruppo transgenico americano che canta il pop con toni lirici e che negli States è un fulmine di guerra (e difatti la Streisand se li porterà con sé nella tournée del suo ritorno).

E ha anche detto no a Lucio Dalla per un ruolo nella Tosca. «Io ho la mia strada, voglio portare il nostro linguaggio a trasmettere emozioni in tutto il mondo, come facevano i grandi tenori come Gigli che, dovunque li ascoltassi, ti sentivi come a casa».

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