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Vivere di rifiuti alla periferia del Cairo: questa la croce del popolo «zabbaleen»

Sono cristiani copti e vengono trattati come reietti: il degrado sociale è il loro habitat

Vivere di rifiuti alla periferia del Cairo: questa la croce del popolo «zabbaleen»

nostro inviato al Cairo
In arabo Zaraib vuol dire «stalla». Zibala vuol dire «spazzatura». Zabbaleen - che letteralmente si traduce con «raccoglitore di spazzatura» - significa l’abiezione dell’essere umano. È il popolo-immondizia che vive ben oltre il limite dell’abbrutimento nel quartiere Mansheya, schiacciato tra le colline Moqqattam, che segnano il limite della periferia del Cairo, e la Cittadella, il cuore islamico della capitale. Tutti conoscono la «Città dei Morti», il cimitero della megalopoli egiziana dove migliaia di senzatetto - un po’ custodi, un po’ becchini - vivono a fianco dei cadaveri nei mausolei delle famiglie ricche: una realtà studiata dagli antropologi e ambita dai tour operator. Il villaggio di Mansheya, invece, il cui degrado sociale non ha paragoni con nulla o quasi, è ai margini del mondo, in tutti i sensi.
Entrare nel quartiere degli zabbaleen, per un estraneo, è praticamente impossibile. Se ci siamo riusciti è solo grazie a un sacerdote comboniano, padre Luciano Verdoscia, pugliese, 48 anni, direttore del Dipartimento di islamistica all’Istituto pontificio di studi arabo-islamici del Cairo che qui, in mezzo ai «più poveri tra i poveri», opera da anni. La povertà. Non è questa la piaga peggiore del villaggio, visto che proprio grazie alla spazzatura - «è il nostro oro», dicono qui - gli zabbaleen riescono a strappare qualche soldo alla città. No, la vera cancrena è il degrado: ambientale, sociale, umano. Nella «città dei rifiuti» vivono in 60mila, emigrati verso la capitale dai villaggi dell’Alto Egitto.
Gli uomini e i ragazzi più grandi escono dal quartiere all’alba. Raccolgono buona parte della spazzatura del Cairo, la caricano su carretti trainati da asini e muli o quando va bene su furgoni scassatissimi, e la trasportano oltre la porta del villaggio che chiamano l’«ingresso dell’inferno». Poi stipano l’immondizia, circa mille tonnellate all’anno, dentro le case, cioè cubi di cemento grezzo con un paio di aperture al posto di porte e finestre, dentro i cortili, dentro quelli che dovrebbero essere dei garage... Un immondezzaio gigante, inimmaginabile. Le strade sono sterrate: fango, liquidi organici, uno strato compatto di putridume.
Sulla soglia di casa, nei vicoli, nei cortili, le donne e i bambini, insieme agli anziani ancora abili, si danno da fare in quella che con termine tecnico potremmo chiamare «raccolta differenziata». Dividono i vari materiali - carta, plastica, vetro, ferro, alluminio, naturalmente rifiuti organici, particolarmente ambiti perché il concime è molto richiesto - smistandoli in zone precise del quartiere, dentro enormi sacchi di iuta che poi vengono rivenduti ai grossisti. È così che guadagnano da sopravvivere.
Già dall’età di sei-sette anni, bimbe e donne incinte comprese, lavorano senza alcuna protezione, a contatto con germi, gas, sostanze tossiche, lamiere, acidi... L’immondizia è ovunque, scendere dall’auto con la quale attraversiamo il quartiere non è consigliabile: per lo spazio strettissimo, per il rischio di suscitare la rabbia degli zabbaleen, per l’odore stagnante, talmente forte da diventare quasi insapore, dolciastro addirittura. Le condizioni in cui vivono sono ai limiti della parola «umanità». Manualmente gli zabbaleen riescono a riciclare il 90 per cento dei rifiuti quando le compagnie industriali, con mezzi meccanici, arrivano sì e no al 60. Per le autorità cairote, che se si affidassero solo all’azienda comunale di smaltimento non riuscirebbero mai a far fronte a una città di 20 milioni di abitanti, il quartiere Mansheya è in fondo una risorsa. Al Cairo ci sono quartieri se possibile ancora più poveri, che non possono neanche contare sull’«oro» della spazzatura, come ad esempio la baraccopoli di Duwe’a, poco distante da qui, senza acqua né corrente elettrica. Ma la differenza tra questi due quartieri è anche un’altra, fondamentale nel mondo arabo. I poveri di Duwe’a sono islamici, mentre gli zabbaleen sono al 90 per cento cristiani copti. L’emarginazione sociale dei «raccoglitori di spazzatura» è una conseguenza dell’emarginazione religiosa, e viceversa. In passato la polizia ha tentato di ripulire la zona, ma questo per gli zabbaleen significava andarsene; e i «trash people» hanno fatto muro. Vogliono rimanere perché la spazzatura è l’unico business qui, se si può chiamare business un’attività che permette, quando va bene, di stare appena sopra la soglia di povertà, stimata tra le 300-400 lire egiziane, circa 50 euro al mese.
A tentare di fare qualcosa, in questo inferno dove un cristiano non vale nulla, sembra essere soltanto il padre comboniano che ci fa da guida. In Egitto dal ’95, don Luciano Verdoscia da tre anni porta avanti il suo progetto di aiuto, partendo naturalmente dai bambini: per i piccoli zabbaleen, quelli più poveri tra i 6 e i 14 anni d’età, ha aperto una scuola. Voleva solo fornire istruzione e assistenza, ma dato che alle lezioni finivano per venirci anche ragazzini musulmani, è stato subito accusato di proselitismo religioso. Le autorità gli hanno messo i bastoni tra le ruote e la polizia gli ha chiesto di cambiare quartiere, spedendolo nella baraccopoli di Duwe’a. Ora dovrà iniziare tutto da capo, cercando di far capire che in casi come questi le barriere di fede non hanno senso.

Così i piccoli zabbaleen continueranno a sguazzare tra fango, urina e rifiuti perché qualcuno ha tolto loro l’unica possibilità di riscatto.

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