Non avrei mai creduto che Patricia Cornwell fosse una signora di piccola statura. Anche se non ignoravo, come sanno gli affezionati ammiratori della sua detective Kay Scarpetta, che l’alter ego di tutti i suoi romanzi non ha certo l’aspetto di Gulliver sperso tra gli abitanti di Lilliput. Gliene accenno dopo la sua energica stretta di mano, e ottengo in cambio una franca risata. Che mi spinge a chiederle come mai fino ad oggi abbia dedicato alla dottoressa Scarpetta, patologo criminale domiciliata a Richmond, ben diciotto suspense stories: è stata una costrizione o una libera scelta? «Né l'una né l'altra cosa», confessa Patricia, «è stata una necessità».
Addirittura!?
«Perché si meraviglia? Da bambina soffrivo della stessa depressione di mia madre rinchiusa a vita in un ospedale psichiatrico. Orfana di padre, affidata coi miei fratelli a una struttura pubblica, finiti gli studi non appena fui in grado di lavorare mi creai una madre di complemento in Marcella Fierro, capo medico legale dello Stato di Virginia. È lei, questa donna meravigliosa, la sola, l’autentica Kay Scarpetta che non solo ha ispirato i miei libri ma ha dato un senso a tutta la mia vita».
Come entrò in contatto con la sua madre putativa?
«Con una laurea in letteratura inglese potevo solo contare su una carriera universitaria. Che non mi entusiasmava. Fui salvata da Edgar Allan Poe».
Come, come?
«Conosce Il mistero di Marie Roget,la terribile cronaca di quel delitto immaginario che il più grande poeta delle Americhe scrisse additando nella conoscenza scientifica del Male l’unica possibilità, per noi umani, di migliorare il mondo salvandoci dal delitto?».
La conosco, certo. Ma non vedo come...
«Dopo aver letto quel racconto, mi dissi che dovevo fare qualcosa di nuovo, qualcosa d' importante, qualcosa di risolutivo. Come si combatte un criminale? Come ci si salva dal delitto? Solo sapendo come agisce un assassino, pensai. E allora...».
Allora?
«Andai in cerca di un patologo forense, e caso volle che incontrai Marcella. Le parlai di quell’impotenza che mi faceva soffrire, la implorai di farmi lavorare. Lei mi guardò fisso e mi indicò una scrivania. Cominciai subito».
A far cosa?
«A scrivere le risultanze delle analisi. In poco tempo imparai come si viene ridotti in seguito alle ferite da taglio, agli spari che ti lacerano il costato, alle corde che ti straziano la cute. L'orrore quotidiano del massacro che ogni giorno si compie su un essere umano poco per volta mi contagiò. Ma come contrastarlo?»
Me lo dica lei.
«Medico non ero, ricercatore nemmeno. Ma sapevo scrivere. Mio marito, che all’epoca era professore universitario, mi incoraggiò in quel senso».
In che modo?
«Mi fece capire che il mio obiettivo passava attraverso la narrativa».
Crede davvero che i libri possano salvare il mondo?
«Forse no, ma possono migliorarlo. Per uscire dal baratro e ritrovare la luce bisogna correre in soccorso dei deboli, dei malati, dei sofferenti. Che, se non vengono aiutati, a volte diventano dei killer spietati».
È stato difficile intraprendere questa nuova carriera?
«È stato un approccio lungo e laborioso. Conoscere la tecnica feroce del massacro non mi bastava più. Dovevo affrontare la psicanalisi, se volevo riuscire».
Come risolse il problema?
«Stavolta non trovai una seconda madre, e nemmeno una sorella. Ma un’analista di grande talento come Stacy Gruber. La donna di cui mi sono innamorata e che ho sposato, dopo il divorzio da Mr Cornwell».
Passiamo a un altro argomento, vuole? Come mai a suo tempo ha acquistato ben trentun dipinti di Walter Sichert,il grande pittore inglese dell'Ottocento allievo di Degas?
«Come saprà, Sichert, a mio avviso, è Jack lo Squartatore cui ho dedicato il mio libro più ambizioso, che ancor oggi suscita polemiche a non finire. Per corroborare la mia tesi, era essenziale che mi impadronissi dei suoi quadri, che ne analizzassi non solo il soggetto ma la pasta cromatica e l'uso dei colori di contrasto per scoprire le tracce del suo DNA».
Che non ha dato, a quanto pare,i risultati sperati, no?
«Questo è ciò che dicono i cosiddetti esperti. Di cui tuttavia non mi fido. Staremo a vedere».
Su cosa basa le sue ipotesi?
«Sul dipinto intitolato L’affaire de Camden Town con quell’uomo dallo sguardo fisso che contempla, su un letto, il cadavere di una donna nuda».
Secondo lei è l’autoritratto di Sichert?
«È lei che l’ha detto».
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