La pittura di Carlo Baruffaldi richiama le sue origini ferraresi nel senso più anomalo, perché rinuncia al compiacimento della campagna, del fiume, della pianura per salire verso il cielo, come se seguisse l'itinerario dell'ippogrifo. La sua fantasia è come quella delle invenzioni dell'Ariosto, una fuga, una fuga verso l'alto. Sono dipinti verticali che salgono verso il cielo e lì trovano le immagini sognanti, la felicità che non c'è sulla terra. La terra è negata, Baruffaldi volta le spalle alla realtà quotidiana. La terra padana è la terra del realismo, è la terra di Caravaggio, è la terra di una pittura legata alle cose, è la terra dei contadini.
Questo mondo in Baruffaldi non c'è; è come se, vivendo sul Po, lui non volesse tener conto di ciò che ha davanti, ma salire in alto. E devo dire, di una città come Ferrara, avvolta nella nebbia e tutta piana, che due riferimenti singolari la indicano come punto di partenza verso il cielo: l'ippogrifo e Italo Balbo. Italo Balbo fa la trasvolata atlantica, ed è singolare che un ferrarese voglia ribellarsi alla condizione salendo verso l'alto, volando verso un altro continente. E questo vale anche per Folco Quilici, grande esploratore di mondi lontani e mari profondissimi. I ferraresi, quando se ne vanno dalla loro città, tendono a salire o a scendere, gli abissi o il cielo; e Baruffaldi rientra in questa logica fantastica di liberazione del piacere del sogno in uno stato di perenne estasi. È come se per lui, che lo vede ogni giorno nelle vaste campagne, il mondo del lavoro, dei contadini, della terra non esistesse. Eppure questa è la sua terra, e qui lui ha vissuto il suo stacco decisivo.
Baruffaldi (classe 1934) vive una parte del suo tempo a Parigi, che è per lui il luogo del sogno. Quando uno pensa (pensava) al luogo più bello in cui vivere, pensa a Parigi. O pensava, perché ora con i terroristi Parigi non è più quella che era; ma è stata il luogo dei sogni di Chagall. Anche Chagall veniva da nebbie di terre remote ed è salito in un sogno che ha coinciso con il soggiorno a Parigi. In Baruffaldi le suggestioni chagalliane sono stimolanti come riferimenti culturali di partenza, una legittima motivazione per un autore del secondo Novecento. Per un padano Chagall è esattamente l'anti-Morandi. Morandi sta a terra, sta in una stanza, vede le cose che posano, mentre Chagall sale verso il cielo. Baruffaldi ha intrapreso il volo che parte da Ariosto e arriva a Chagall. E pur essendo, immagino, felice di vivere prevalentemente sul Po, è come se lo volesse tenere dentro. Mentre, quando racconta ciò che vede, racconta ciò che sogna attraverso una pittura potentemente onirica.
Sono felice che se ne occupi il critico più sensibile al mondo onirico che è Renzo Margonari, a sua volta pittore, un uomo che è stato sempre attento a quella esperienza di dirompente, e talvolta lirica, fantasia che io ho chiamato «surrealismo padano»; perché la stessa condizione esprimono, con altri parametri, Foppiani e Armodio a Piacenza, Ligabue a Gualtieri, Lanfranco a Quingentole. Non c'è un solo grande pittore di fantasia, che sia nato in pianura padana, che si sia limitato, salvo il forte scultore contadino Giuseppe Gorni, a descrivere la terra e quanto essa testimonia come fatica dell'uomo, come cacciata dal paradiso terrestre. Usciti dal paradiso, gli uomini lavorano la terra. Baruffaldi, Ligabue, i pittori del sogno, invece vogliono tornare al paradiso terrestre, che, essendo un paradiso, non ha le limitazioni della terra. E lo ricreano.
Per cui potremmo dire che queste opere sono nostalgia del paradiso. Sono nostalgia del paradiso perduto; e, per un pittore, dovendo decidere, meglio stare in paradiso che lavorare. È meglio dipingere che lavorare. Perché un pittore lavora? Quando qualcuno mi dice «il lavoro del pittore», penso quanto sarà coglione quel critico. Il pittore non lavora, il pittore sogna. Picasso non lavorava. Uno lavora moltissimo, il lavoratore deve dare il suo tempo per una cosa che non gli interessa, che gli porta un po' di denaro che è ciò per cui perde il tempo per avere un po' di tempo libero nel quale poi mette soltanto cose inutili; invece i pittori, gli artisti, hanno una vita aggiunta, fanno cose che aumentano il loro tempo. Non lavorano, quindi sognano. Baruffaldi ha scelto di fare il pittore. Ci sarà una ragione. E, avendo deciso coerentemente di stare in una condizione di felicità, ha scelto di dipingere soltanto i luoghi dove chiunque vorrebbe stare: i Caraibi, i Paesi più lontani, i più esotici, un Oriente inventato. La fantasia definisce anche ciò che il pittore immagina come luogo della felicità che è un luogo non reale e non esistente.
Io, quando ero ragazzo, pensavo che l'inferno fosse verde e odio ancora il verde, tutto il verde, in quanto ossessivamente monocromo. Invece il paradiso è policromo, è pieno di tutti i colori del mondo. Quindi uno che ama i colori, che fa il pittore, evidentemente sente che la sua condizione è una condizione di felicità rispetto a quella di imperfezione, di minorità di chi sta sulla terra. Un ferrarese che sogna, un ferrarese che ha evitato il lavoro cui sarebbe stato destinato, sceglie di volare verso gli orizzonti più lontani. È per questo che ho ricordato Italo Balbo.
Balbo è un grande ferrarese, non ricordato abbastanza perché era fascista, ma questo non toglie che sia stato un personaggio straordinario e che nel volo abbia trovato la fuga dalla terra e dal reale.E proprio il volo è un'altra delle condizioni tipiche della pittura onirica di Baruffaldi, ultimo ferrarese.
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