Politica

Volti e sentimenti della bimba cresciuta nel bunker

Cristiano Gatti

Soltanto nei prossimi mesi si capirà se queste interviste sono il modo più veloce e dignitoso per liberarsi una seconda volta - dalla galera delle curiosità collettive -, oppure se sono l’inizio di un infinito tormentone a puntate, con il risultato inevitabile dell’indigestione. L’avvio è incoraggiante: per la prima uscita televisiva, sulla Rai austriaca (Orf), la sepolta viva Natascha Kampusch non ha preteso un euro. L’accordo è che la rete pubblica, scelta tra quattrocento richieste da tutto il mondo, rivenderà il servizio ad altri Paesi, destinando i proventi alla Fondazione ideata dalla stessa ragazza per sostenere le vittime minorenni di crimini. Lei naturalmente sarà la presidente, nelle vesti di massima esperta.
Austria ferma, davanti agli schermi, per la mezz’ora più attesa e più angosciante degli ultimi anni. Nel pomeriggio, primi assaggi sul settimanale News e sul tabloid Kronen Zeitung, scelti dalla ragazza per il settore carta stampata. Nelle foto sui giornali, così poi in prima serata tv, Natascha appare come una bella ragazza dagli occhi azzurri, viso tondo e luminoso, bandana in testa secondo le mode del momento. Nessuno, davanti a queste immagini, direbbe di una miracolata, sopravvissuta all’abominio peggiore, cioè alla privazione per otto anni e mezzo della libertà, che nel suo caso significa anche rovina dell’età più candida e più felice. Ma quel che Natascha racconta ai giornalisti, senza mai piangere, con la voce un po’ roca per il raffreddore, finalmente spiega e rende compiuto il quadro allucinante di un’esperienza ai confini della realtà. Soprattutto, davanti ai microfoni, la povera martire di Wolfang Priklopil, 44enne maniaco e paranoico, spazza via alcuni dubbi sollevati subito dopo la liberazione, quando tutti sul pianeta abbiamo per un attimo pensato che in fondo, dentro quel cunicolo, assieme a quel folle, ci fosse rimasta volentieri e volontariamente.
«Ho sempre pensato di fuggire - chiarisce - non ho mai smesso di pensarci. L’ho pure detto a lui, mesi fa. Una volta ci ho provato: eravamo in macchina, sulla tangenziale di Vienna. Ad un rallentamento, ho tentato di buttarmi, ma lui mi ha afferrata ed è subito ripartito... Avete visto dalle riprese in che razza di ambiente mi teneva. Sei metri quadri, sempre al chiuso. All’inizio battevo continuamente i pugni alle pareti, rompevo bottiglie. Mi sentivo come un pollo in gabbia, una cosa da disperazione. Continuavo a ripetermi: perché, fra milioni di persone, proprio a me? Istintivamente ero convinta che non sarei mai uscita viva da quella prigione. Ma razionalmente non ho fatto che pensare a come scappare. Mi dicevo: non sono venuta al mondo per essere rinchiusa, e vedere la mia vita completamente cancellata. Finché quel giorno, il 23 agosto...».
Natascha rivive in presa diretta i momenti della fuga. L’occasione della vita, improvvisa, da cogliere al volo: come un secondo parto, per rinascere in un modo diverso. Lui è al telefono, non bisogna perdere un attimo. «Ero totalmente in preda al panico. Ho raggiunto il cancello attraversando il giardino. Mi girava la testa, avevo le palpitazioni, per la prima volta ho realizzato quanto fossi debole, con i miei 42 chili e gli arti anchilosati...». Poi, tutto come in un film d’azione, che toglie il fiato e quasi mette rabbia: la povera ragazza chiede disperatamente aiuto ai passanti, quelli nemmeno capiscono. E il terrore che all’improvviso, da un momento all’altro, una mano - quella mano - l’afferri di nuovo alle spalle. «Correvo lungo i giardinetti del quartiere, cercavo di fermare la gente, ma nessuno capiva. Alzavano le spalle, dicevano di non avere un telefonino. Finalmente ho scavalcato una siepe e ho visto la finestra aperta di una cucina: dentro, una signora che trafficava. L’ho implorata. La prego, chiami la polizia. Lei l’ha fatto, eccomi qui... Nei primi giorni di libertà sono già andata a mangiarmi un gelato, in incognito, con lo psicologo. Una cosa bellissima sorridere alla gente. Più complicato spiegare ai medici che non mi servono sonniferi: semplicemente, dormo con gli orari della prigione, alle 4 sono sveglia...».
Natascha parla a lungo. Molto estese le interviste sui giornali. Due ore di colloquio con il conduttore televisivo, poi ridotte a mezz’ora per evitare pause e tempi morti. Parla di tutto, non dei particolari più intimi. Il sesso, ovviamente: hanno scritto persino che sarebbe incinta del criminale. Sarà solo il tempo a dire, distinguendo tra realtà e stupidi pruriti della fantasia. Di quell’uomo, però, non traccia un quadro comprensivo. «Non è bello parlare di un morto, soprattutto per rispetto di sua madre. Che si sia suicidato, è un peccato: avrebbe dovuto raccontare tante cose alla polizia, ma anche a me. Comunque era paranoico e mentalmente instabile. Io ero certamente più forte di lui, perché ho avuto l’amore di una famiglia, che lui non ha conosciuto. Ho fatto di tutto, negli anni, per conquistare un po’ della sua fiducia: era l’unica speranza di riuscire un giorno a giocarlo. Spesso, lo ammetto, ho avuto pensieri cattivi: qualche volta ho pensato di decapitarlo, se solo avessi trovato un’ascia...».
Durante la prigionia, rivela, ha cercato sempre di tenersi attiva. Studiando, leggendo, persino aiutando il suo aguzzino nella sistemazione della casa. «Non volevo lasciarmi morire. Ho tentato di vivere. Però mi mancavano tremendamente i contatti umani, persino gli animali. Ho cercato di parlare con quell’uomo: gli dicevo che se l’avessero preso sarebbe rimasto in prigione vent’anni. Comunque consolati, ironizzavo: al giorno d’oggi anche i sessantenni si mantengono bene». All’inizio dell’odissea, ricorda, ha provato anche a pregare. Ma poi è emersa una difficoltà insormontabile: «È stato quando ho visto che pregava pure lui. E poi penso che persino Fidel Castro preghi. Ho concluso che qualcosa non funzioni bene...».
Adesso, fuori dall’incubo, ci sono subito i progetti. Incommensurabile e misteriosa, la capacità umana di ricominciare. Natascha vuole curare i malanni al cuore che le hanno rilevato in ospedale, dopo la terapia claustrofobica del suo boia, quindi sogna come tutte le ragazze di diciotto anni affacciate sulla vita: «Vorrei fare un viaggio con i miei genitori, che amo ancora tanto, come allora, anche se erano separati. È stato più difficile per loro che per me: mi credevano morta. Ho già incontrato due volte mia madre, presto vedrò il papà. Poi, più avanti, mi dedicherò alla Fondazione e al lavoro. Se uscirà un libro sulla mia storia, sarà solo mio». Anche se gli intervistatori la trovano «più colta di una laureata», vuole prendersi la maturità e poi una laurea. «Ora mi fido degli psicologi e della mia famiglia, ma soprattutto ho una grande fiducia in me stessa...». Con calma, senza fretta: ma guarderà avanti. È scritto nel destino degli umani: bisogna sopravvivere.

Natascha proverà ad inventarsi una vita libera, quando si spegneranno i riflettori. Già: quando?

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