Volume alto e glamour Kevin Costner balla (male) con il rock

Al Brancaccio di Roma concerto breve per un bagno di divismo

da Roma

Le stelle del cinema hanno i loro privilegi. Prendi Kevin Costner che l’altra sera ha inaugurato col botto la stagione teatrale del Brancaccio. Gioca a fare la rockstar per un’ora e mezzo, attinge a piene mani al repertorio rock americano anni Ottanta, inciampa nelle note e si prende cinque minuti di applausi. Neanche un fischio che uno, un’ovazione per grazia ricevuta. Non si offenderà il premio Oscar, il rock pugnace, ma genuino come gli ogm, dei suoi Modern West verrà ricordato per aver spiazzato e rintronato la platea vip che giovedì aveva intasato il teatro più chiacchierato d’Italia come l’Autosole quando si ribalta un tir. Si frega le mani il nuovo direttore artistico Maurizio Costanzo: come la metti è stato un successo mediatico enorme.
La classica mezz’ora romana di ritardo e dalle retrovie appare Lui, chitarra a tracolla, sorriso illuminato da raggi laser. Sbaciucchia la folla adorante cotta a puntino da venti minuti di furbetta introduzione cinematografica. Ma dalle struggenti note di Balla coi Lupi si passa al granitico, e poco ispirato boogie di To my love, brano che sembra uscito da un cd dei ZZ Top che furono. A Kevin manca giusto la barba. E mentre in platea si accomodano i ritardatari Guardì, Freddi e Calissano, lui attacca a macinare quella musica, il country, che una volta animava le feste paesane d’America e ora grazie a Gram Parsons ha dignità rock. Ma lo fa a tutto spiano. L’acustica, sollecitata dai decibel in eccesso, mette a dura prova le orecchie dei presenti e le anguste pareti che iniziano a vibrare. Siamo pur sempre in un elegante teatro romano, caspita. Si continua. Arriva Got to get away, tema dal suo ultimo film: lui la introduce come fosse una figlia: «Ci tengo, ascoltatela, è bellissima», lo stampino però colpisce ancora. Il modello stavolta è (e rimarrà per sempre) Springsteen. La voce si arrampica su terreni scivolosi, ma è debole e poco allenata. Stecca, si ferma e beve. Chissenefrega, è un divo e le signore del pubblico lo immortalano col telefonino. Lui gongola e si mette in posa. Ogni tanto butta giù un saluto, in tanti credono di essere stati miracolati. Il pubblico subisce in ordinato silenzio e lui richiama l’applauso: «So che voi romani siete generosi, come on». Dopo 45 minuti qualcuno si muove lì davanti. Colpa dell’effetto rimbombo delle risonanze in sala, un’onda che ti sposta letteralmente dalla poltrona. Arrivano Five minutes to America e Debbie’s intention che purtroppo non si discostano granché se non per gli inserti sempre più decisi del violinista. Long hot night è un tormentone tra gli aficionados di Youtube che viene spesso presa per uno scarto del Boss. Avanti. Porch Song sembra uscita da Sweetheart of the rodeo dei Byrds, accademia-compitino niente male. Si torna a picchiare. L’orecchio si abitua al ritmo monocorde e l’impressione è che lui stenti a seguire le note dei brani perché si ferma spesso.
È passata un’ora e finalmente arriva la cover, roba (si spera) conosciuta che scaldi un pubblico giustamente surgelato. D’altronde ai concerti si ascolta musica nota. La scelta è di fino: Mr Tambourine man, ma l’inno folk dylaniano è stravolto dal basso-batteria: le eleganti armonie vanno a farsi benedire: la platea si infiamma comunque. Bel colpo, ma siamo fuori tempo massimo.

Kevin dovrebbe continuare ancora per un po’ (il concerto è previsto di due ore) ma c’è un fritto di zucchine già prenotato in un noto ristorante della capitale. Giusto un altro paio di trascurabili canzonette. Finisce qui. Non prima di aver subìto il bacio di una procace signora in biondo con mazzolin di fiori. Ma perché, davvero la musica contava?

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