LA VOTAZIONE ALLA CAMERA

RomaLa fiducia di mezza legislatura passa abbondantemente, con 342 sì, 275 no e 3 astenuti. Nell’aula di Montecitorio c’era il pienone delle grandi occasioni, 620 presenti.
Ma ieri sera erano in pochi, anche nella maggioranza, a negare che ora le elezioni anticipate a primavera siano diventate lo scenario più probabile. A cantare vittoria sono i finiani, che appena annunciato il risultato del voto tuonano con Carmelo Briguglio: «Siamo determinanti: senza Futuro e Libertà non ci sarebbe più questo governo».
Come sempre si può vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Se Roberto Formigoni preferisce la prima via, e nota che il premier ha «una maggioranza più ampia del 2008» (sette voti in più: nella prima fiducia della legislatura Berlusconi ottenne 335 voti), Umberto Bossi guarda la metà vuota e dice: «I numeri sono limitati, la strada è stretta». E lascia trapelare un rimpianto, o un rimprovero: «Nella vita è meglio prendere la strada maestra, che è il voto. Berlusconi non ha voluto andare alle urne e ora siamo a questo punto».
Il punto è che l’«autosufficienza» della maggioranza rispetto alla fronda finiana (da ieri ufficialmente accoppiata all’Mpa di Raffaele Lombardo) non è stata raggiunta: se il premier sperava di conquistare un pacchetto di quei «voti moderati» cui ha fatto appello anche in aula per assicurarsi la fatidica quota 316 (la maggioranza assoluta) che lo avrebbe messo in sicurezza rispetto al gruppo che fa capo al presidente della Camera, l’obiettivo è stato mancato. Senza i 36 voti dei finiani (ma Fini non vota in quanto presidente e in due, Granata e Tremaglia, hanno votato no in dissenso col gruppo) e i cinque dell’Mpa, di cui uno ieri era assente, la quota 342 si abbasserebbe a 306, 307 con il deputato Pdl che ieri non è riuscito a votare per un disguido: sulla carta non sufficienti, per esempio, a respingere la mozione di sfiducia contro Bossi presentata dal Pd, se Fli e Mpa decidessero di non ridare la fiducia al ministro che ha dato dei «porci» ai romani. Un’ipotesi di scuola, per ora, ma che dà bene l’idea del potenziale Vietnam in cui potrebbe trasformarsi ogni voto parlamentare, con Fli e Mpa a fare da ago della bilancia. «La vera fiducia sarà giorno per giorno nelle commissioni», prevede pessimista il ministro Calderoli. La conferenza dei capigruppo fisserà oggi la discussione della mozione di sfiducia, ed è probabile che il voto cada già la settimana prossima. Bossi mette le mani avanti: «Se mi sfiduciano andrò a casa io, ma il governo non cade. Si incazzerà la gente del Nord».
I voti raccolti fuori dalla maggioranza alla fine sono stati sette: i cinque siciliani fuoriusciti dall’Udc, capeggiati da Lillo Mannino, e due «cani sciolti»: Bruno Cesario, avvocato di Portici strappato all’Api di Francesco Rutelli; e Americo Porfidia, ex Italia dei Valori già passato da tempo al gruppo Misto. «La campagna acquisti è finita in un fiasco», dicono i rutelliani. I cosiddetti lib-dem (già diniani) Italo Tanoni, Daniela Melchiorre e Maurizio Grassano hanno varcato il Rubicone di buon mattino, annunciando che - contrariamente alle previsioni - non avrebbero votato la fiducia: «Non ci sono state le risposte che ci aspettavamo», annuncia in aula la Melchiorre. Ergo, no. I repubblicani si dividono fifty-fifty: essendo in due, l’uno (Francesco Nucara) vota per il governo, l’altro (Giorgio La Malfa) vota contro.
Massimo Calearo, imprenditore ex Pd passato all’Api, si tormenta fino all’ultimo istante, poi alla fine prevale l’affetto e la «cortesia», come dice lui, verso Walter Veltroni (che lo ha messo in lista), e alla fine si astiene: «Il mio voto non era necessario, perché la maggioranza c’è». In ogni caso Calearo smentisce che a consigliarlo di non dare una mano a Berlusconi sia stato Luca di Montezemolo, sospettato di sperare in futuri governi tecnici: «Non tirate per la giacca il presidente della Ferrari, è un amico e non il mio consigliere politico», giura.

Poi in serata ai microfoni di Radio 24 scherza: «Se qualcuno vuole picchiarmi, ne approfitti adesso», e annuncia: da oggi sarà sotto scorta, a seguito delle minacce ricevute dopo essersi detti disponibile a votare la fiducia al governo.

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