Walter Chiari, genio e vittima di un’Italia surreale

L’idea che nel maggio del 1970 Walter Chiari sia finito in galera per distrarre gli italiani da piazza Fontana e dalle voci sul cosiddetto «terrorismo di Stato» è surreale, ma non più di quanto fosse surreale l’Italia d’allora. L’ha avanzata sere fa il critico Tatti Sanguineti nello speciale La storia siamo noi di Giovanni Minoli dedicato al grande comico a quindici anni dalla morte. Sembra che Mariano Rumor, all’epoca presidente del Consiglio, avesse qualche giorno prima dichiarato che lo Stato non avrebbe «guardato in faccia nessuno» nella difesa della legalità repubblicana e della dignità delle istituzioni. Destrorso, ma troppo individualista per essere legato a qualcosa o a qualcuno, popolare, ma troppo disimpegnato per le nuove generazioni dell’impegno permanente e continuo, Walter Chiari era insomma la vittima ideale da offrire in pasto a un’opinione di sinistra, che ogni due per tre gridava al pericolo fascista, un monito a riflettere per un’opinione pubblica di destra spaventata dall’«autunno caldo», dagli scioperi e dalle contestazioni.
Ora, per solidarietà istintiva, qualsiasi cosa Sanguineti dica o scriva su Walter Chiari, siamo portati a dargli ragione. Fra quelli che, negli anni del declino e della colpevole dimenticanza, più si batterono per ridargli il peso e il ruolo che erano i suoi, Sanguineti è il capofila: fu lui che nel 1986, con l’attore ancora in vita, curò Storia di un altro italiano, tributo a un genio irripetibile della comicità, e sempre suo è lo speciale Finale di partita, il Beckett fatto in teatro da Chiari e Renato Rascel, con tanto di dietro le quinte e prove generali. Per un giudizio storico-politico, tuttavia, la solidarietà istintiva non è sufficiente, ma l’aggettivo surreale usato all’inizio a una lettura attenta si rivela assolutamente calzante. Torniamo a Rumor. Nel marzo del 1970 era al suo terzo governo, il che dovrebbe dare un’idea di durata e di concretezza. Peccato che il primo governo Rumor fosse nato nel dicembre di due anni prima e fosse durato otto mesi: nell’agosto del 1969 si arrivò così al secondo, che di mesi ne compì sette. Quel terzo non andò oltre i cinque. In quell’arco di tempo, non ci fu solo piazza Fontana, ci fu di tutto: i morti di Battipaglia e quelli di Pisa, la morte del poliziotto Annarumma, le bombe sui treni, i cortei contro la repressione, il record degli scioperi, la contestazione al Festival di Venezia, le occupazioni universitarie... Non suona surreale un presidente del Consiglio del genere che minacciava di «non guardare in faccia nessuno»?
Il fatto è che aveva ragione Leonardo Sciascia: «Non per precauzione ma per convinzione, riteniamo tutta la classe politica italiana, quella al potere e quella, per una certa parte, all’opposizione, nell’insieme come nei singoli, incapace non solo di gestire il delitto ma anche di concepire piani eversivi o avventurosi per consolidarsi nel potere o per prenderlo. Per vizio di letteratura potremmo anche dire: ci vuole una certa grandezza o un certo coraggio anche nel male; e di grandezza e di coraggio non vediamo traccia». Incolpevole, Chiari finì nel tritacarne di un Paese senza: senza istituzioni, senza giustizia, senza linea politica, senza grandezza né dignità. Si fece tre mesi di carcere e tre anni di purgatorio... Quando tutto finì, si trovò cinquantenne in un’Italia che ormai non gli piaceva più.
A metà degli anni Settanta chi scrive andò a vederlo in uno spettacolo al teatro Quirino di Roma. Era una specie di One Man Show, anche se allora non si chiamava così, e Chiari era reduce da una contestazione a Genova, accusato di aver parlato bene di Mussolini o male della Resistenza, o qualche stupidata del genere. Fra lui e Novecento di Bertolucci, che davano quella sera al Quirinetta non ebbi il minimo dubbio: Walter era un mio mito da quando ero ragazzino. Una decina d’anni prima avevo visto un film di Dino Risi che si chiamava Il giovedì. Con gli occhi di adesso è un film delicato, con un Walter Chiari mai così bravo al cinema, la storia di un padre separato, chiacchierone, inconcludente e inaffidabile, che in quel giorno della settimana vede il figlio, altrimenti affidato alle cure di una madre in carriera, energica, abile. Visto con gli occhi di un ragazzino d’allora è una storia di piazze e strade deserte, dove si giocava a pallone, di fontanelle dove sudati si andava a bere, delle prime auto di lusso che vedevi, delle prime complicità con un genitore che goffamente, ma irresistibilmente cercava di non limitarsi a fare il padre, ma a capire chi fosse quell’alieno che andava crescendogli a fianco e che in fondo era già più maturo di lui... Era un’Italia, Roma nella fattispecie, di una bellezza indicibile, dove in macchina si andava al mare in venti minuti, c’erano gli stabilimenti balneari ma non c’era ancora la folla, si vendevano le sigarette sciolte e un bambino poteva ragionevolmente pensare che nessuno gli avrebbe fatto del male. Un’Italia dove avevano cominciato a girare i soldi, ma i soldi non erano ancora l’unico valore riconosciuto e il Walter Chiari-Dino Versini del film, uomo di cambiali, di prestiti, di assegni a vuoto, era come quello zio o quell’amico di famiglia di cui si parlava, si sorrideva, a volte ci si indignava o ci si preoccupava: era un povero disgraziato, non un modello.
Di quell’Italia fra i Cinquanta e i Sessanta, Walter Chiari fu il principe allegro e gentile. Aveva un passato da boxeur, fatto in tempo a fare la guerra dalla parte sbagliata, era generoso, colto, amato dalle donne. Da Lucia Bosè ad Ava Gardner ha avuto le più belle e sempre lasciando intorno a sé l’idea che in amore non ci fosse mai sofferenza, ma puro e semplice divertimento. Se la «dolce vita» è veramente esistita e non è stata solo un’invenzione cinematografica di Fellini, lui sicuramente l’ha vissuta, le paparazzate, le scazzottate all’uscita di un night... Come del resto dimostrò Visconti in Bellissima, Wells in Falstaff, Otto Preminger in Bonjour Tristesse, Chiari aveva anche un’altra cosa: piaceva agli intellettuali che andavano al teatro di rivista per vederlo, al varietà per applaudirlo. In Controcorrente di Metz e Marchesi, la passerella finale si trasformava in un nuovo vorticoso spettacolo. Era un funambolo: lunare, sgangherato, inarrestabile.
Si diceva prima del Quirino. Lo spettacolo doveva cominciare alle otto e mezzo di sera, ma un’ora dopo Chiari non era ancora arrivato, il pubblico aveva preso a rumoreggiare e io dicevo alla mia ragazza che bisognava avere pazienza, Walter era così, era sempre stato così. Quello dei ritardi cronici, delle improvvisazioni, della incapacità a rispettare le regole era stato sempre infatti un suo classico, e però quello che da giovane gli era sempre stato perdonato, adesso che andava invecchiando non appariva più genio e sregolatezza, ma il sospetto della totale inaffidabilità, di uno che in fondo non era più in grado di fare il mestiere che faceva. Alle ventidue il Quirino era in ebollizione, alle 22,15 si presentò di nuovo il direttore e sconsolato disse che ci avrebbe rimborsato. Aveva appena finito di parlare che Walter Chiari entrò non dal palcoscenico, ma direttamente dalla platea, di corsa, fra molti fischi. «Se non vi strappo un applauso nei primi cinque minuti, rimborso tutto io». Sul palcoscenico, da solo, davanti a una sala gelida cominciò con l’impersonare un coro, ma era un coro di sordomuti... Gli fece cantare Va’ pensiero... sordomuti, capite, che intonavano Va’ pensiero, senza voce, solo a gesti. E era proprio Va’ pensiero... Uscimmo dal teatro alle due del mattino. Questo era Walter Chiari.
Quando morì, Indro Montanelli ricordò che una cosa simile Walter l’aveva fatta in un ristorante di Firenze, in una serata fra amici. Mesi dopo, al Manzoni, si erano rivisti e dopo lo spettacolo lui gli aveva chiesto: «Scusa perché non rifai quel coro?». «Quale coro?» era stata la risposta, non se ne ricordava più. E anche questo era Walter Chiari.
Negli ultimi anni, fra i progetti teatrali che accarezzava, c’era anche un Enrico IV di Pirandello e un Ricorda con rabbia di Osborne. Anche in questo era inimitabile, nell’idea che, comunque, si potesse ripartire, ci fosse sempre tempo.

Se n’è andato che non aveva neppure settant’anni, una vigilia di Natale, gli occhiali sul naso, la testa appena reclinata, seduto in poltrona. L’epitaffio più bello l’ha detto il figlio Simone: «Per me è in tournée, forse in Australia».

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