Perdonatemi l’uso della prima persona. Ma sapete com’è... Non capita tutti i giorni di correre al capezzale di Walter Chiari. Andò così. Domenica 3 marzo 1991, primo pomeriggio di quasi primavera. Sto bighellonando in tipografia, qui al Giornale, in via Gaetano Negri, e vedo accorrere il caporedattore centrale con gli occhi sbarrati. «Che stai facendo? Roba urgente? Abbiamo un guaio», mi dice. «Che guaio?». «Walter Chiari è gravissimo in ospedale. Agli spettacoli siamo scoperti... Fiondati là e vedi un po’ com’è la situazione, non vorrei che...». Corro là, al San Carlo. Dribblo, in ordine di apparizione: un custode sospettoso, un paio di suore con la faccia da funerale, una decina di infermieri allarmati dal mio aspetto da invasato (era il primo «servizio» importante, dovete capirmi). Chiedi di qui, intrufolati di là, alla fine trovo la stanza giusta. Entro in punta di piedi, lo vedo di spalle armeggiare intorno a un televisore. «Mi scusi, signor Chiari... Io sarei un giornalista e mi hanno detto che... Insomma... mi hanno mandato qui...».
Si volta. Ha la faccia del pugile che fu, da ragazzo. Ma non sembra per niente suonato, diciamo un pugile dopo un paio di round equilibrati. Certo, era meglio in giacca e farfallino a Studio Uno, quasi trent’anni prima. Il pigiama celeste da pensionato, indossato da lui, è una stonatura. «Vieni, vieni caro. Questa tv mi sta facendo dannare. Sta per iniziare 90º minuto e non vorrei perdere i gol del Milan... Abbiamo vinto quattro a uno, lo sai no?». Infatti, avevamo vinto quattro a uno a San Siro contro il Napoli. Ma come faceva a sapere che anch’io ero rossonero? Ah già, lui era Walter Chiari, il mattatore sensitivo, il mago della risata che parte dalle budella e arriva alla testa, il cavaliere senza macchia e senza paura dei palcoscenici, dei set, degli studi di mamma Rai. Lui le cose le percepiva in maniera animalesca, e raramente sbagliava. «Macché grave! Sono qui per un controllino, più che altro per far compagnia a un mio amico ricoverato». Lui, il Walter, non era «ricoverato». Come si sarebbe potuto ricoverare Walter Chiari?
La mia memorabile giornata proseguì fra signore e dottoresse tutte eccitate a squittirgli intorno, discussioni calcistiche, barzellette e un annuncio: la seconda notizia che portai a casa, dopo quella che il Maestro stava molto meglio di me e del caporedattore messi insieme. «Quando esco mi metto a lavorare a un musical, una roba piena di ballerine con le gambe lunghe». Quel musical non ebbe il tempo di farlo. Morì nove mesi dopo, il 20 dicembre.
Anzi, secondo il suo «Simoncino», cioè Simone Annicchiarico, l’unico figlio, avuto con Alida Chelli, il Walter incominciò a morire in primavera, durante l’ultimo dei suoi abituali viaggi esotici, nel paradiso della Costa Rica. Simoncino lo spiega fra le righe della doppia biografia Walter e io (Baldini & Castoldi, da domani nelle librerie). Ecco, a pagina 165 c’è il Walter in piedi in riva al mare, immobile e con le braccia conserte. Simone gli si avvicina e s’accorge che il babbo sta piangendo. Walter Chiari in lacrime, questo sì che è uno scoop da prima pagina. Gli era giunta la notizia della tragica morte del piccolo Conor, quattro anni, il pargolo di Eric Clapton e Lory Del Santo, caduto dal 53º piano di un grattacielo a New York. Ascoltate Simone: «Quando mi telefonava dalle tournée con Lory, mi raccontava puntualmente le sue giornate con Conor: “Simone, non hai idea di come ti assomiglia... A tavola gli faccio tutti i giochi che facevamo assieme, dai bicchieri allo stuzzicadenti fino al classico della tovaglia da sfilare di scatto da sotto i piatti... È sempre sulle mie spalle, proprio come te!». Era un’ingiustizia, e il Walter le ingiustizie non le poteva sopportare. Soprattutto, quelle subite dagli altri, perché i suoi tre mesi di galera per un grammo di cocaina, anno di disgrazia 1970, gli scivolarono sulla schiena da atleta come pioggerella sull’impermeabile.
O no? Simoncino, inanellando ricordi come vengono vengono (è un simpatico cazzone - chissà da chi ha preso? - non un rigoroso filologo) cova il dubbio di aver conosciuto un Walter «di seconda mano», come gli disse qualcuno. Un Walter leggermente lobotomizzato come l’altrettanto mitico R.P. McMurphy alias Jack Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cuculo. Le storie e la storia del più grande e onnivoro talento spettacolare dell’Italia intera, fra donne stupende magari mollate alla fermata di un treno, magari raggiunte con voli intercontinentali soltanto per consegnare un mazzo di rose, fra tavolate goliardiche, elargizioni milionarie a fondo perduto, esplosioni di entusiasmi, buchi neri illuminati dal puntuale colpo di genio, è tutta qui ma anche altrove. Si perde nei rivoli della memoria di cento amici, colleghi, compagni e camerati (fa lo stesso - la politica, in fondo, è un accidente) occasionali.
Occhieggia persino dallo spottone sanremese di sabato sera dedicato alla fiction Walter Chiari. Fino all’ultima risata (26 e 27 prossimi, Raiuno), con Alessio Boni a fare «il Walter». Cari telespettatori, siate indulgenti, mettetevi una mano sul cuore. Ne abbiamo tutti bisogno.
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