Walter faticava e Massimo segnava: un derby infinito

«Sali, sali, vieni avanti con quella palla». Il Cinese ha il passo lento, sbuffa, vede il campo davanti a sé, ma qualcosa di atavico, di antico, lo trattiene. Qualcosa che si può chiamare prudenza, o realismo. Le urla di Spezzaferro e dell’altro, quello lì con gli occhiali sulla destra, le sente, ma fa finta di nulla. Qui a Verona fa ancora un po’ di freddo, anche se è quasi estate. È il 7 giugno del 1996. Il Bentegodi è pieno. Ci sono quasi 50mila spettatori. È tanto per una «partita del cuore». Quelli con le maglie gialle e blu sono i politici. Gli altri, come al solito in blu, la nazionale cantanti. Sergio, Massimo e Walter si sentono compagni, come un tempo, forse per l’ultima volta. Quando sono arrivati si sono abbracciati. Il Cinese con la barba brizzolata e gli occhi mezzi chiusi e cosce da mastino, bianche, potenti, gli altri due sembrano due abatini. Anche se Spezzaferro è scatto e furbizia. Il terzo, Uolter, l’americano, sogna. Lui e il pallone, dicono i suoi compagni, sono terre distanti.
L’odore dello spogliatoio non è quello che si aspettavano. Non c’è quel miscuglio di canfora e muffa, di scarpe, ciabatte, accappatoi bagnati e borse troppo a lungo chiuse. Non sono più quei tempi e loro sono invecchiati. C’è un momento nella vita in cui devi fare il grande salto. Tutti e tre pensano che ce l’hanno fatta, ma non ancora abbastanza.
L’americano gioca sulla destra, con il numero sette, lì cammina e si perde. Il campo è «terra e polvere che tira vento, e poi magari piove». Proprio come nella canzone di De Gregori. Questo è il guaio di Walter. Tutto quello che fa è un simbolo, una suggestione letteraria, un rimando a un mondo immaginario di icone, canzoni, epopee e mitologie pop. Questa sera l’americano assomiglia ancora di più a Snoopy, quando fa il Barone Rosso. Ed è quasi irritante. Quando D’Antoni, battezzato in gioventù con il soprannome di U’ Panzer, fa caracollare la palla dalle sue parti, Walter s’inventa un lancio senza senso, impossibile per i suoi piedi, che non hanno mai imparato a tirare di collo, ma solo un piatto strambo, svirgolante. La palla finisce nella terra di nessuno. Walter cerca con gli occhi il centravanti ed è già uno sguardo di scusa. Massimo, lo spezzaferro, il líder maximo, arriccia il baffo e si avvicina: «Fai le cose semplici». Walter è quasi mortificato. Il nove lo accarezza con un buffetto sulla nuca: «Non fa niente. Pensa a giocare».
Questa partita sembra eterna. È lo specchio della loro vita, di tutto quello che la sinistra sarà, anche dodici, tredici anni dopo, quando Walter sbaglierà il suo ultimo sogno e l’altro non riuscirà neppure a consolarlo. Fai le cose semplici. Non è facile. Questo Spezzaferro lo sa da sempre. Il suo compagno di una vita, quello conosciuto e sfidato già ai tempi dei giovani Pci, è un ottimo secondo, uno che sa smussare gli angoli della loro tradizione, bravo a sorridere e a fare le citazioni giuste, ma non ha mai avuto il dono della concretezza. Non segna. È il contrario di Massimo, che in area ci sguazza, furbo e preciso come un Paolo Rossi o un Inzaghi. Peccato che la sorte non lo abbia mai assecondato davvero. Si è ritrovato sempre con una squadra in cerca d’identità e lui non fa gioco, finalizza. Non ha la pazienza dei geometri e neppure l’azzardo degli architetti. È un centravanti e vive di egoismo. Non ha mai pensato che un assist dia più soddisfazione del gol. E se la palla arriva, lui smanaccia amici ed avversari. E non è un caso che qui, quel giorno del ’96, a Verona, abbia messo dentro lui la palla del pareggio, quella del due a due. Anche Fini esulta, seduto in panchina.
Questo è un partito dove non si resta. Ti lascia in corpo tanta delusione. Roberto Borroni tredici anni fa era un sottosegretario, quota Pds, chiaro. Quel giorno in campo correva, sbuffava e faticava. Il gol di Massimo arrivò con un suo assist. Fu lui a organizzare la partita. Sono quasi dieci anni che non fa più politica. È tornato a Mantova e non si offende se non lo chiamano più senatore. Il calcio svela i caratteri, lì è più difficile bluffare. Lui ha visto l’arguzia di Massimo, la danza lenta di Sergio, la malinconia di Walter, in fuorigioco. A casa, incorniciata, ha la foto ricordo, quella classica, in piedi e accosciati. Li ricorda tutti, quelli bravi e quelli un po’ patetici. C’erano Casini, bollato da Bossi come «El carugnin de l’uratori», e Tajani, D’Antoni e il portiere Pezzoli. C’erano Gasparri, La Russa, e Mastella, panchinari impazienti. C’erano Martini e Mauro, che in serie A ci hanno giocato davvero. C’era Bobo Maroni, «uno davvero bravo» e Willer Bordon, più o meno una disgrazia. E poi c’erano quei tre: D’Alema, Veltroni, Cofferati. Come una triade, le speranze della sinistra, quelli che avrebbero attraversato il Duemila, fuoriclasse della bella politica, quando l’anomalia Berlusconi sarebbe ormai stata solo un lontano ricordo. Era il 1997 e nessuno aveva paura di scommettere sul futuro. Ma qualcosa si stava già incrinando.
Il Cinese ha guardato Walter e Massimo cercarsi per tutta la partita. Non si sono mai trovati. È bravo il Cinese. È rimasto a difendere la mediana e allargare sulle fasce, fedele alla massima (anche politica) che «le partite si vincono al centro, ma bisogna presidiare le ali». Questa è l’alchimia che ancora sfugge alla sinistra. Con gli anni il Cinese è diventato pessimista. Tutto intorno a lui è così leggero, tante battaglie senza sale, inseguendo le cause perse dei radicali o del buonismo smoccolante, tutta gente che non ha mai visto le periferie del Nord, della sua Bologna, o di questa Verona, dove la notte è buia e le strade sono una trappola, un azzardo. Il Cinese si è chiesto cosa ne sanno davvero quelli di Micromega di romeni e maghrebini.

Come ha fatto il suo partito a imbarcare questo esercito di fricchettoni?
Quando sono tornati nello spogliatoio Uolter era sfatto, Spezzaferro orgoglioso, il Cinese zitto e saggio. Qualcuno disse: «A questa squadra manca l’amalgama». E come il presidente del Catania, il vecchio Massimino, qualcun altro rispose: «E dove gioca che l’andiamo a comprare?». Tutti risero, senza sapere.

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