Politica

WALTER LEADER DEI TAFAZZI

Se lo conosci lo eviti. Ma Veltroni, pur sapendo bene chi sia Di Pietro, cosa rappresenti, che fine abbiano fatto i suoi alleati, e quale sia il suo obiettivo, continua a restargli avvinghiato come una vittima al proprio carnefice. Ora il risultato dell’Abruzzo rappresenta una lezione in salsa dipietrista per il Pd, la batosta è stata terrificante come dimostra la matematica: il Pd passa dal 35% al 20%, mentre Di Pietro dal 3% arriva quasi al 15%. Quindi che qualcosa non vada in un rapporto che segua questa dinamica, non serve un raffinato politologo per capirlo. Ma se questa è la sintesi algebrica, il problema è un altro, più grave, ed è tutto politico: il Veltroni di «we can», non può più. Non può guidare il partito che aveva teorizzato, non può rompere con Di Pietro, non può liberarsi di D’Alema e delle correnti che soffiano nel Pd, non può scegliere una collocazione europea, non può avere un’idea che non sia subito commissariata.
Così assistiamo ad un singolare paradosso: il Partito democratico dichiara di aver rotto l’alleanza con l’Italia dei Valori, ma nella regione-simbolo della questione morale, dopo essere stato travolto dallo stesso problema in tutto il resto del Paese, si fa dettare la linea dalla pattuglia dell’ex pm, che per tutta la campagna elettorale continua a pronunciare in ogni salotto televisivo le sue requisitorie, il cui principale bersaglio è ovviamente il Pd. E mentre Veltroni sdogana e consacra gli arrabbiati dipietristi, Di Pietro - per riconoscenza - gli succhia il sangue dalle vene e i voti nelle urne.
L’equivoco, in realtà, continua dalle politiche, ed ogni volta la situazione si aggrava. Il Pd - all’epoca - ci aveva raccontato che avrebbe corso da solo. Il suo leader ci aveva promesso, al Lingotto e poi in tutte le piazze d’Italia, che avrebbe inaugurato una stagione nuova: nessuna demonizzazione politica nei confronti del centrodestra, dialogo sulle riforme, priorità ai problemi del Paese. Ce lo ricordiamo ancora, quel giorno indimenticabile, alla Camera, in cui il leader del Pd aveva incontrato Berlusconi per poi suggellare questo nuovo corso con una solenne conferenza stampa. Tutto finito, scomparso, evaporato. Non solo: da quando Veltroni ha ufficialmente «rotto» (ma chi se n’è accorto) l’alleanza con Di Pietro, Veltroni è tornato all’antiberlusconismo militante, celebrando, il 25 ottobre, la sua messa dipietrista al Circo Massimo. Subito dopo si è infilato nel budello istituzionale della Commissione di vigilanza, che ha portato all’elezione di Villari e alla triturazione di un candidato come Zavoli. E come mai? Perché anche lì, il giorno dopo la famosa rottura con Di Pietro, il Pd era in trincea per il dipietrista Leoluca Orlando. Un paradosso, o forse soltanto un pasticcio. Con il centrodestra pronto a votare Zavoli, e il posto dell’ex presidente della Rai occupato da un senatore eletto con il Pd.
Noi non sappiamo cosa dirà la mattina del 19 dicembre Walter Veltroni, nella sua relazione in direzione. Ma siamo certi di una cosa: se continuerà a ripetere gli errori che lo hanno portato al pasticcio dipietrista, avremo finalmente trovato un leader.

Non del Partito democratico, ma di tutti i tafazzi italiani.

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