Marcello Foa
Non è unindiscrezione, ma un annuncio, affidato non a un portavoce ma a un ambasciatore. Il teatro è lIrak, i protagonisti Washington e Teheran. O meglio, per ora soprattutto Washington che, mentre il mondo si inquieta per i programmi nucleari degli ayatollah, si dice pronta ad avviare un dialogo con lIran. A rilevarlo, con inusuale franchezza, è il rappresentante di Bush a Bagdad, Zalmay Khalilzad, in una dichiarazione rilasciata al settimanale Newsweek. «Sono stato autorizzato dal presidente ad avviare contatti con gli iraniani, così come quelli che ebbi con loro in Afghanistan», afferma lambasciatore statunitense. «Ci saranno degli incontri. Questo è un inizio e una correzione», della politica della Casa Bianca nei confronti di uno dei tre Paesi dellAsse del Male. Parole sensazionali, pronunciate domenica pomeriggio, che Washington ieri non ha amplificato, ma nemmeno rettificato. E che Teheran ha accolto con un eloquente silenzio.
I due Paesi si stanno studiando, per valutare se i tempi sono maturi, se le intenzioni reciproche sono serie. Le relazioni diplomatiche sono interrotte dal 1979, ma in tempi recenti gli approcci non sono mancati. Ne accenna lo stesso Khalilzad, riferendosi allinvasione dellAfghanistan alla fine del 2001. Allora Usa e Iran erano accomunati da un comune interesse: annientare il regime talebano, inviso agli americani per il sostegno fornito a Bin Laden e agli iraniani per contrastare lintegralismo sunnita di Kabul, incompatibile con quello sciita. Ancora oggi non si conoscono i dettagli dellaccordo tra Khalilzad - allepoca inviato americano a Kabul - e gli emissari degli ayatollah. Di certo quellesperienza fu giudicata positivamente dallallora segretario di Stato Colin Powell, che nellimminenza della guerra in Irak decise di replicarla. Nel più assoluto segreto, raggiunse una nuova intesa: lIran si impegnava a controllare il sud sciita e persino a consentire, in caso di necessità, il passaggio sul proprio spazio aereo dei caccia Usa. In cambio otteneva due garanzie: primo, che i diritti di quelle popolazioni (peraltro maggioritarie nel Paese) sarebbero stati rispettati; secondo, che Washington non avrebbe usato il «nuovo» Irak per lanciare unoffensiva contro Teheran.
Laccordo funzionò a meraviglia e indusse lo stesso Powell ad annunciare, a fine maggio 2003, linizio di trattative formali, a Ginevra. Ma Powell non aveva fatto i conti con il capo del Pentagono Rumsfeld, che andò su tutte le furie, lanciando una violenta campagna verbale contro la Repubblica islamica e culminata in un invito alla ribellione rivolto alla società civile iraniana. I giovani di Teheran lo ascoltarono, e molte migliaia di loro scesero in piazza, persuasi che Washington avesse un piano per rovesciare il regime con il sostegno della comunità internazionale. Ma il piano non cera, si trattava, semplicemente, di un gesto di stizza e di prepotenza del ministro della Difesa Usa, che comunque ottenne il suo scopo: lIran ritenne violati i patti e si rifiutò di proseguire i negoziati di Ginevra. Significativamente, proprio nel giugno 2003 Moqtada al Sadr fondò lesercito del «Mahdi», che alimentò la rivolta armata sciita fino allottobre 2004.
Proprio lincubo di un «risveglio» di al Sadr e dei suoi epigoni sembra aver indotto la Casa Bianca a ritentare la via del dialogo. Oggi la priorità è di dimezzare la presenza militare Usa in Irak entro la fine del 2006 e per raggiungere questo scopo è indispensabile contare sulla collaborazione dei Paesi limitrofi. Due su tutti: la Siria, che infatti è sottoposta a crescenti pressioni, e lIran. Damasco è il portale che alimenta la rivolta sunnita, Teheran la garanzia che il sud sciita resterà tranquillo, rispettando la Costituzione e il governo che scaturirà dalle elezioni di dicembre.
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