da Roma
Più bello di The Departed, più intenso di Heat, e come entrambi costruito sull'incontro-scontro tra due superstar: Russell Crowe e Denzel Washington. Uscito il 2 novembre negli Usa, piazzandosi subito al primo posto con 43,6 milioni di dollari in un weekend, American Gangster riporta Ridley Scott in vetta al box-office e gli regala un probabile biglietto per l'Oscar, mancato tre volte in passato. A Scorsese il poliziesco ha portato fortuna, ma nel caso di American Gangster il genere è solo uno spunto per rievocare, in forma tesa e distesa insieme (dura 157 minuti), un pezzo di storia americana tra orrore e genialità. L'orrore della droga, la genialità, magari perversa, di un Padrino nero, Frank Lucas, che sul finire degli anni Sessanta seppe imporsi sulla mafia italiana, ereditandone logica spietata e culto della famiglia, per diventare il più potente boss dell'eroina a New York.
Pensate cosa si inventò questo giovanotto del North Carolina, nato poverissimo, vittima del segregazionismo, cresciuto facendo il tirapiedi-gorilla del carismatico Bumpsy Johnson: un traffico noto come «cadaver connection». Cioè, bypassando gli intermediari, importò direttamente dal Medio Oriente tonnellate di eroina purissima, da lui venduta non tagliata in bustine con la scritta «Blue Magic», nascondendole nelle bare dei soldati morti in Vietnam. In pochi mesi, partendo da quei cento chili iniziali, rivoluzionò il «mercato». Sobrio nel vestire e nel parlare, premuroso verso la vecchia madre e i fratelli, attento a non esporsi nell'edificare un impero tossico mal sopportato dal crimine organizzato. A suo modo un indipendente, un sognatore americano: pronto a smerciare veleno doc, perché sul prodotto non si può barare.
Doppiopetto e cravatte eleganti, camicie bianche, niente collane e anelloni kitsch, capelli corti, Denzel Washington incarna Frank Lucas con adesione impressionante. Sai che «uccide migliaia di persone da un attico guidando la sua Lincoln» (dice una battuta del film), ma è fedele a un suo codice, prega con i suoi prima di pranzare e non alza mai la voce. Appunto, un Padrino nero. Contro il quale, in un'operazione di avvicinamento progressivo che lo vede a capo di una piccolo team di sbirri onesti, mentre attorno infuria la corruzione più marcia, si schiera l'idealista Richie Roberts, ovvero Russell Crowe.
Marito assente, padre distratto, donnaiolo impenitente, lo sbirro in jeans e stivali è preso per un gonzo dai colleghi per aver consegnato un milione di dollari sporchi recuperato durante una missione. «Chi può permettersi di vendere roba buona il doppio a metà prezzo?», si chiede quando gli affidano l'incarico di beccare i pesci grossi del narcotraffico. Appunto, Frank Lucas: troppo esclusivo quel posto sotto il ring nell'incontro Clay-Frazier per non destare sospetti nel poliziotto travestito da fotografo.
Nella migliore tradizione, le due vicende scorrono parallele per una buona metà del film. Da un lato, l'irresistibile ascesa dell'ex autista nero, lucido e scaltro, pronto a farsi strada in un mondo dove «o sei qualcuno o non sei nessuno»; dall'altro, la complicata vita, anche sentimentale, dello sbirro irriso per aver rifiutato ogni tangente, deciso a far piazza pulita, «perché qui i poliziotti arrestano i criminali».
Per Ridley Scott è la terza volta con Crowe, dopo Il Gladiatore e Un'ottima annata. «Ormai ci capiamo al volo, basta un'occhiata, senza bisogno di parlare», ha raccontato il regista inglese in un'intervista. Spiegando che «i due attori hanno metodi opposti di lavoro, Denzel è più cool, Russell più tormentato, ma entrambi ricercano una feroce meticolosità». Si vede.
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