Alberto Pasolini Zanelli
da Washington
È una svolta politico-militare o semplicemente uneco della obbligatoria allegria del Thanksgiving Day? Probabilmente luna cosa e laltra e, più ancora, linizio di uno sforzo di adeguamento della conduzione del conflitto in Irak agli umori dellopinione pubblica. Allincrocio fra queste necessità sono venute in poche ore le dichiarazioni di due importanti membri dellamministrazione Bush, che annunciano praticamente la stessa cosa in parole non molto diverse: Donald Rumsfeld, capo del Pentagono e Condoleezza Rice, segretario di Stato. La parola chiave è «ritiro». Non ci sono date fisse ma ci sono, ora, date possibili. Non si fanno numeri precisi ma ci sono dei numeri. Cè perfino, nascosto fra le righe, il primo accenno a una parziale soluzione alternativa. Il tutto circondato dalle doverose cautele.
«Sospetto - dice Condoleezza Rice - che non ci sarà bisogno di mantenere a lungo il numero delle forze americane necessarie in Irak». «È verosimile - aggiunge a distanza di poche ore Rumsfeld - una riduzione del contingente Usa in Irak dopo il voto di dicembre». Naturalmente la rapidità e la stessa possibilità delloperazione sono condizionate agli sviluppi militari nel Paese: unaccresciuta attività della guerriglia obbligherebbe gli americani a restare, un rallentamento li incoraggerebbe a partire. Tutte considerazioni in sé ovvie, così come lo sono le riserve immediatamente espresse dai capi militari del Pentagono, che ricordano i pericoli di un indebolimento e minimizzano lentità del rimpatrio. Si sa che i gallonati made in Usa erano in maggioranza assai scettici sulloperazione, che fu decisa dai dirigenti politici senza consultarli o ignorando le loro riserve; ma adesso che sono in ballo essi si preoccupano di non offrire al nemico occasioni per attaccare i loro soldati una volta essi fossero indeboliti di numero.
Però lopinione pubblica ha fretta (nellultimo sondaggio pubblicato dal Wall Street Journal risulta che sessanta americani su cento pensano ora che «non sia valsa la pena» fare la guerra e addirittura 64 su cento si dicono convinti che la Casa Bianca abbia «fuorviato lopinione pubblica per raggiungere i propri fini»), i politici la seguono (soprattutto quelli che pensano alle prossime elezioni) e Bush non può rimanere insensibile alle ansie nelle file del suo partito, che rischia non solo di pagare nel novembre prossimo il prezzo dello scontento ma anche di privare di conseguenza il presidente della sua preziosa maggioranza in Congresso.
Dunque il tono è cambiato, radicalmente, in pochi giorni. Tacciono in questo momento le rampogne violente e le accuse di atteggiamento antipatriottico ai critici del conflitto in Irak. Il vicepresidente Dick Cheney esprime ora tutta la propria stima a John Murtha, il deputato democratico che per primo propose laltro giorno il ritiro dallIrak. Fu bollato come «amico dei codardi» (anche se è un eroe di due guerre), adesso il vicepresidente lo proclama «una persona perbene, un valoroso soldato, un patriota e un amico». E si rivaluta tacitamente perfino la proposta avanzata meno di dieci giorni fa da John Kerry, ultimo candidato democratico alla presidenza, di riportare a casa, per ora, trentamila soldati su centoventimila. Proposta di cui fu messo a nudo il lato debole: diminuire le truppe in un teatro di guerra (e soprattutto di guerriglia) può aumentare il rischio per coloro che ci rimangono. Ma adesso è proprio quello di cui parla lAmministrazione. Giocando sulle cifre, è vero. Riportare a casa trentamila soldati si riferisce al numero attuale, che è centosessantamila, gonfiato dalla necessità di proteggere le operazioni elettorali del 15 dicembre e quindi il livello tornerebbe in realtà pressappoco normale.
Ma per poco. È ora prevalente lopinione che occorrano tagli ben più consistenti e presto. Lo richiede ora, fra laltro, il governo filoamericano di Bagdad, facendo suo largomento che la presenza delle truppe americane «attizza le tensioni, lodio e la guerriglia».
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