Roma - Un decreto nuovo di zecca. Con un testo diverso sia dal disegno di legge concordato dal governo con le parti sociali, sia dal provvedimento così come è uscito dalla commissione Lavoro della Camera. Quello con tutte le modifiche care alla sinistra comunista. Il premier Romano Prodi ha deciso di giocare l’ultima carta per recuperare il consenso di tutta la maggioranza e, contemporaneamente, placare l’ira di sindacati e imprenditori. E l’ipotesi di un «terzo testo» circolata alla fine della settimana scorsa, ha ripreso quota.
Anche perché l’alternativa è quella prospettata da Walter Veltroni. Per il segretario del Partito democratico sarebbe meglio una «convergenza». Ma se non si dovesse trovare un compromesso tra la sinistra radicale e quella moderata - ha ribadito ieri - il voto di fiducia deve essere posto sul «testo originale dell’accordo, quello firmato dalle parti sociali».
Ancora più netta la capogruppo alla Camera Anna Finocchiaro che ieri, primo giorno di esame in aula del provvedimento, ha dato per scontato che «il governo porrà la fiducia» sul Protocollo, «uno dei pezzi più preziosi di questo anno e mezzo di legislatura». In sostanza il Pd preferisce il testo che il governo ha concordato con le parti sociali. Anche se i suoi deputati alla commissione Lavoro hanno votato le modifiche dei comunisti italiani.
Mossa, questa di Finocchiaro, che la sinistra antagonista ha interpretato come una dichiarazione di guerra. Alla quale ha risposto a tono. Il presidente dei senatori di Rifondazione comunista Giovanni Russo Spena è tornato indietro rispetto a domenica e ha annunciato che «se si dovesse tornare al testo iniziale, vanificando il lavoro del Parlamento, l’accordo non si farà». Il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore ha attaccato di nuovo Lamberto Dini. «Non possiamo stare sotto la pressione costante e per certi versi ricattatoria di chi, a ogni piccola modifica, dice di avere ragione». E Francesco Caruso, deputato no global del Prc, ha annunciato che inviterà il suo gruppo a votare no.
Al governo toccherà muoversi in questi margini strettissimi. Ormai certo che la sinistra radicale sarà accontentata soprattutto sul capitolo lavoro, mentre sulle pensioni l’unica via praticabile è quella di Dini. Questo potrebbe significare ulteriori amputazioni alla legge Biagi. A farne le spese potrebbe quindi essere lo staff leasing, l’assunzione a tutti gli effetti di personale da parte di società che poi forniscono lavoro ad altre aziende. Contratto tipicissimo - e per questo difeso dai sindacati - la cui abolizione permetterebbe però alla sinistra di rivendicare una vittoria sulla riforma che prende il nome dal giuslavorista ucciso dalle Br. In forse il job on call. Sicura la sua abolizione, resta da vedere se il lavoro a chiamata sopravviverà, oltre che nel turismo e nello spettacolo, anche nel commercio. Per il momento no. E Confcommercio ieri - durante l’incontro tra le associazioni datoriali e il governo - ha di nuovo protestato per l’esclusione.
Il punto più delicato restano i contratti a termine. Le modifiche introdotte alla Camera hanno fatto infuriare gli industriali. Ma Prc, Pdci e Sd le difendono, forti del fatto che non comportano aggravi per la spesa pubblica. La soluzione che si sta profilando - nel nuovo testo di legge oppure stralciando la parte sul lavoro dal ddl - è il rinvio del nodo a un tavolo tra governo parti sociali.
Impossibile, invece, che passino le modifiche chieste dalla sinistra sulle pensioni. Gli emendamenti sugli usuranti farebbero esplodere i costi della riforma, già molto costosa nel testo del governo. Aspetto che, oltre a Dini, nemmeno il ministro Tommaso Padoa-Schioppa è in grado di sostenere.
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