Whun Chung celebra Giulini

Alberto Cantù

da Milano

Pensi ad un uomo di fede e sacerdote della musica come Carlo Maria Giulini in una città dalle mille, profanissime luci quale Los Angeles, California. Ti viene in mente la spiritualità del Maestro e la confronti col tono muscolare, gli ottoni sfolgoranti della Los Angeles Philharmonic.
Eppure Giulini, da direttore stabile, seppe piegare (meglio: convertire) il complesso statunitense al suo Credo e alla sua musicale trinità di grandi B (Beethoven, Brahms, Bruckner) oltre a incontrare, quale assistente, un giovane coreano di nome Myung-Whun Chung che oggi è la bacchetta più famosa e rappresentativa del suo Paese ma soprattutto uno fra i maggiori interpreti al mondo. Quel Chung che parlando di Giulini lo indica come colui che «ha più profondamente influenzato» la sua vita di musicista: «un esempio per oltre 25 anni».
Lunedì, al Piermarini, Chung ha ricordato Giulini a un anno dalla morte come già all’indomani nel dirigere a Scala aperta la Marcia funebre dall Eroica di Beethoven. Lo ha fatto, come allora, con la Filarmonica della Scala sul cui podio il maestro di Barletta fu la presenza ospite più assidua (concerti, dischi) e anche la più amata. Con 9 esecuzioni della beethoveniana Pastorale, ben 21 della Quarta sinfonia di Brahms e 93 apparizioni totali dal 1984.
Proprio con la Pastorale e con la sinfonia che suggella Brahms «guardiano delle forme classiche», Chung ha reso omaggio a Giulini e lo ha fatto nel modo migliore: realizzando le aspettative del «suo» maestro senza imitarlo. Il che significa avere tradotto la fede profonda nella grande musica, la mirabile chiarezza e il suono come fatti etici prima ancora che estetici, il coinvolgere nei brani proposti tutto se stesso e chi fa musica con lui.
La Filarmonica, invitata a radiografare le partiture leggendo non le note ma «dietro» le note, ha dato una prova altissima che da «antichi» frequentatori del complesso non ricordavamo.
Nella Pastorale c’era il comune denominatore di un andamento rotatorio (il gesto stesso) che ferma il tempo perché l’uomo è stupefatto di fronte alla natura. Era un Beethoven dai modi affabili, di rusticana sveltezza, con legni e corni agresti in bel rilievo (splendide prime parti) ma si apriva pure ad oasi di beata contemplazione (niente edonismi), all’accalorata preghiera o al dolcissimo, trasfigurato inno di gioia (il Finale come ponte verso l’ultimo Beethoven).
Poi i grandi spazi di Brahms e il suo color velluto scuro e morbido. Una Quarta in perfetto, esemplare equilibrio tra racconto serrato e oasi di nostalgia (i legni) per un mondo al crepuscolo, tra la frase che avvolge (archi compatti, vibranti) e l’altra ad evocare lontana. Nello Scherzo dove un’energia dirompente sapeva mutarsi in canto giocoso.

Nei prodigi da «artigiano» che volge il passato in presente ossia nelle 36 variazioni su 8 note incorniciate dai corni (egregi) della Passacaglia finale, il flauto col suo racconto partecipe e all’opposto i tromboni pieni di malinconia.
Concerto da serbare nel cuore e nella testa. Buone presenze di pubblico e un successo pari ai risultati.

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