Zapatero farà diventare rosa il «sangue blu»

Il caso aperto da una nobildonna che contestava ai suoi fratelli il diritto di fregiarsi del titolo di duca

Luciano Gulli

Ottocento anni di tradizione nobiliare - dunque di Tradizione tout court - sono pronti per essere avviati al macero in nome del Progresso, della Modernità e degli altri totem di derivazione illuminista che governano ultimamente con mano ferrigna il pianeta. Otto secoli durante i quali è stato pacifico, accettato e riconosciuto dai portatori di sangue blu non meno che dal popolo «vile e meccanico» il principio secondo cui a ereditare il titolo nobiliare, nella discendenza per li rami, è il primogenito maschio. Così è in Gran Bretagna e nella vecchia Europa. Così è in Spagna fin dal Medio Evo. Cioè: era.
In Spagna ora si cambia. E fa una certa impressione che a metter mano alla materia sia il governo socialista di José Luis Rodriguez Zapatero. Non si era detto che maschi e femmine sono uguali? si son detti un bel giorno alle Cortes. I moderati del Partito popolare, presi in contropiede, hanno abbozzato come babbei, senza subodorare l’artificio, dichiarandosi in linea di principio d'accordo. Ma se sono uguali (qui la logica perversa dei progressisti si è fatta stringente) perché dunque mantenere questo ignobile retaggio del titolo assegnato al maschio? Non ne ha diritto forse la femmina, se è la primogenita della situazione?
Dello sconvolgimento epocale (pensato dai socialisti per compiacere demagogicamente l’altra metà del cielo, che non ci guadagna nulla, ma gonfierà ancor più il petto, e inarcherà minacciosi sopraccigli) soffrirà in fondo un pugno di individui elettoralmente insignificante. Pensate: in tutto il territorio che un tempo fu sotto la corona dei regni di Aragona e Castiglia, vivono oggi (cioè sopravvivono) solo 2.097 tra marchesi, duchi, baroni, cavalieri e semplici «don».
Quella che per ora è solo una bozza di legge (diventerà esecutiva l’anno prossimo, si calcola) finirà per dare ragione a otto nobildonne che avevano impugnato la regola dell'ancien régime davanti alla giustizia spagnola e a quella internazionale puntando il dito contro il machismo (ecco la parola esecrata, pronunciata dalle otto signore) che permea la tradizione nobiliare.
A gettare il sasso nella immota piccionaia dei portatori di sangue blu è stata la signora Isabel Hoyos Martinez de Irujo, che ha contestato ai suoi più giovani fratelli il diritto a fregiarsi del titolo di duchi di Almodóvar del Rio. Duchessa (con quel che ne consegue, ivi compresa una bella tenuta alle porte di Madrid) vuol esser lei. La Corte Costituzionale le ha dato torto, affermando che la Costituzione non si occupa di baggianate del genere, avendo esse un carattere «puramente simbolico». Anche le Nazioni Unite si sono dichiarate incompetenti. Zapatero no. Lui e il suo governo si sentono competenti. Competentissimi.
Donna Isabel, annusato il vento che gira dalla sua, ora è scatenata. «I principi del 13° secolo, secondo i quali le donne sarebbero inferiori o portatrici di un sangue più scadente sono inaccettabili», dice minacciosa. E proclama: «Noi non vogliamo privilegi; ma reclamiamo un diritto ereditato dai nostri antenati. È una causa giusta, e nessuno potrà impedire alle aristocratiche di avere gli stessi diritti degli uomini».
La legge, dicono a Madrid, passerà, facendo piazza pulita di una delle ultime certezze rimaste alla vecchia aristocrazia (ramo maschile) che un tempo, all’onor del mento, univa altri attributi, e ora si avvia malinconicamente a restare solo con barba e baffi (quando ci sono).

L’unico scampolo di buona notizia, in tanto fracasso, viene dalla Commissione Giustizia del Congresso spagnolo, secondo la quale la legge non potrà avere effetto retroattivo. Non è una gran consolazione, ma tocca contentarsi.

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