Gli zingari e l’integrazione a senso unico

Caro Granzotto, scrivo in merito all’articolo dell’11 maggio dal titolo «Chiamparino firma la prefazione sulle fate zingare». Non trovo paradossale che un sindaco promuova la cultura rom, scrivendo la prefazione a un libro, che ha come unico intento lo scambio reciproco di culture, l’integrazione, e che favorisca una società migliore. Semmai è adeguato al ruolo. Non trovo altresì sbagliato che appoggi un’iniziativa aperta a una società multietnica. È quella che Torino vive nel quotidiano. Chiudere gli occhi sarebbe il vero paradosso. Un romanzo di questo genere, che avvicina un popolo abbandonato per troppo tempo ai margini delle nostre città, che fa nostre anche usanze e tradizioni così lontane, riavvicina pure i molti che si sentono sradicati e che in questa metropoli «cominciano a non identificarsi più». Il mio è un semplice e umile parere (molto probabilmente condiviso dal sindaco di Torino). L’obiettivo è forse il medesimo voluto dall’autore dell’articolo: quello di vivere una realtà migliore e più sicura, che comunque il sottoscritto non vede realizzabile alzando muri.

autore de «La piazza della zingara»

Be’, avendo firmato la prefazione al suo libro mi pare evidente che Sergio Chiamparino condivida il suo parere, caro Marchina. Parere sul quale in parte anch’io concordo, laddove afferma di non trovare paradossale che il sindaco di Torino l’abbia scritta, quella prefazione. Ciascuno la pensi come vuole, naturalmente, ma a me pare che non ci sia niente di scandaloso. Oltre tutto nel suo romanzo ci sono richiami alla città che Chiamparino amministra e che conosce fin nelle più remote pieghe: prefatore più indicato di lui, non lo si poteva dunque trovare. Dove non la seguo, caro Marchina, è nel suo proporsi non tanto come romanziere, quanto come un missionario il cui scopo sarebbe non solo quello, perfettamente consono alla letteratura, di favorire lo «scambio reciproco di culture», ma anche di contribuire all’integrazione favorendo così «una società migliore». È un trito e farlocco luogo comune che la conoscenza di culture diverse sia condizione necessaria e sufficiente per accoglierle, per aderirvi, per avallarle, insomma. Qualche volta ciò accade; altre volte la conoscenza esaspera invece la diffidenza, alimentando il sentimento xenofobo. Venire a conoscenza che nella loro cultura è legittimo e anzi, è promosso il cannibalismo non è che mi renda gli agori più vicini, più fratelli, più «accettabili». Direi piuttosto il contrario. Tornando al suo libro, io davvero non vedo come la conoscenza delle Ursitiry, le divinatrici del romanzo, possa in qualche modo favorire l’integrazione con il popolo zingaro. Tutta la letteratura in materia - e dunque anche la sua - ne esalta la «cultura», i riti, le musiche, l’abbigliamento, la parlata, le gerarchie, la poetica del nomadismo, le fate e le cartomanti in uno sforzo collettivo per celebrare la e le diversità. In pratica per dire a noi lettori: accettateli e amateli così come sono, «diversi». E che integrazione sarebbe mai questa? Come si fa a parlare di integrazione quando la si intende a senso unico? Lei conosce bene quel mondo, caro Marchina: crede che nei campi, nelle roulottes o comunque negli alloggi zingareschi facciano presa romanzi su lombardi o piemontesi che si son fatti con le proprie mani, rispettando la legge e pagando le tasse? O su altre fate, mettiamo friulane, che si son rotte la schiena in fabbrica tirando al contempo su una famiglia? Crede che quei romanzi possano indurli a integrarsi rinunciando magari alla «cultura» dell’accattonaggio coinvolgendovi bambini se non proprio lattanti? Deciderli a rompere con le tradizioni e passare all’ufficio collocamento? Il suo è un bel libro, interessante e scritto bene, caro Marchina.

Avrà il successo che si merita: non cerchi di infiocchettarlo con i birignao buonisti e politicamente corretti, con la favola di una società multietnica che risulterebbe essere - e perché mai? - una società migliore.
Paolo Granzotto

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