
Milano «La vox populi è un dato assai pericoloso, perché il suo recepimento nelle aule di giustizia può essere all'origine delle peggiori degenerazioni della giustizia». È un esplicito atto d'accusa contro la giustizia «a furor di popolo», contro l'emozione pubblica che prende il posto del diritto, quello che si legge nella sentenza depositata ieri per la morte di Michele Ferrulli, stroncato da un arresto cardiaco una notte di giugno del 2011 durante un controllo delle Volanti.
Per quella tragedia, quattro poliziotti sono finiti sotto processo, accusati di omicidio preterintenzionale, indicati come gli autori di un pestaggio senza motivo, e financo di «tortura». La Procura ha chiesto la loro condanna a sette anni di carcere. La Corte d'assise lo scorso 3 luglio li ha assolti con formula piena. Ieri, le motivazioni. E sono motivazioni assai severe con la pubblica accusa, ma anche con i testimoni, i familiari, gli amici del morto, che si sarebbero inventate dichiarazioni smentite dai fatti, con l'obiettivo di dimostrare la tesi di fondo: «lo hanno ammazzato».
E invece, dice la sentenza, Ferrulli non venne ucciso. A stroncarlo fu lo stress del fermo che - in un fisico segnato dall'alcool e dal peso - scatenò una «tempesta emotiva». Ma in quel guaio, dice la sentenza, Ferrulli ci si mise da solo, ribellandosi ai poliziotti che cercando di identificarlo, insultando, minacciando, non lasciando insomma loro altra scelta. «L'ammanettamento di Ferrulli era legittimo e fu eseguito con modalità legittime condizionate dall'atteggiamento non collaborativo e anzi apertamente ostile del Ferrulli», scrive il giudice Guido Piffer nella sentenza.
Dei casi ormai numerosi di poliziotti e carabinieri sotto processo per la morte di cittadini sotto fermo, il caso di Ferrulli era il più «politico», perché il defunto era uno dei leader dei comitati inquilini di Calvairate, quartiere popolare a ridosso dell'Ortomercato. E fu da quel mondo che partirono fin da subito le accuse nei confronti dei poliziotti, accompagnate da riprese video che secondo gli amici di Ferrulli dimostravano senza equivoci come l'omone fosse stato pestato senza motivo. La Procura fece proprie queste convinzioni, accusando i poliziotti dapprima di omicidio colposo poi, seguendo le indicazioni del giudice preliminare, addirittura di omicidio preterintenzionale.
Ora la sentenza smonta tutto: ed è una sentenza a metà tra le analisi dei fatti e la teoria del diritto, che indica con nettezza i limiti dell'utilizzo della forza da parte della polizia. Che la violenza può usarla, se è necessario, purché sia proporzionata. E proprio questo per la Corte d'assise era il caso di Ferrulli, che «dopo avere proferito reiterate ingiurie e minacce all indirizzo dei poliziotti, dopo essersi rifiutato di fornire i documenti e dopo avere addirittura aggredito uno dei poliziotti poteva essere legittimamente ammanettato per essere portato coattivamente in questura».
Sulla dinamica dei pochi minuti in cui avvenne il tempestoso fermo di Ferrulli, la sentenza se la prende con i «clamorosi errori di interpretazione» che il pubblico ministero e i suoi consulenti avrebbero fatto delle registrazioni audio e video. Ferrulli non dice «basta, la testa basta» per fermare i colpi dei poliziotti, ma è un poliziotto a dire «sposta sto braccio, basta» per convincerlo a lasciarsi ammanettare; il manganello che colpirebbe l'uomo a terra non è altro che il braccio di un poliziotto guantato di nero; Ferrulli non viene colpito alla testa ma sotto la scapola, per costringerlo a piegare il braccio; i colpi in faccia che due testimoni dicono di avere visto rifilare all'uomo ormai esanime, per la Corte erano solo «buffetti» per rianimarlo. Insomma, non vi è il benché minimo elemento per una condotta di violenza gratuita né prima né dopo l'ammanettamento e men che meno una violenza esercitata con corpi contundenti, ipotesi questa che è stata il frutto di una visione superficiale e distorta del filmato, diffuso subito come prova pacifica di tale circostanza in realtà infondata».
Commenta la figlia di Ferrulli: «Non mi aspettavo niente di diverso, d'altronde durante la camera di consiglio, durata soltanto un'ora, tutti abbiamo visto alcuni giudici popolari nei corridoi fumare e prendere il caffè».
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