A un anno esatto dalla botta delle ultime elezioni, il Pd ha un nuovo capo, Nicola Zingaretti, fino a ieri più noto come il fratello del commissario Montalbano che di nome fa Luca e di professione l'attore, protagonista della nota serie tv. Tutto bene quel che finisce bene? La storia di quel partito non lascia spazio a eccessivo ottimismo: tutti i suoi segretari e leader (da D'Alema a Prodi, da Fassino a Renzi) sono rimasti vittime delle faide interne ancor prima e più che degli insuccessi elettorali o politici. Anzi, più hanno avuto successo (D'Alema primo presidente del Consiglio ex Pci, Prodi l'unico a battere Berlusconi nelle urne, Renzi primo a superare il 40% in un'elezione), più sono stati avversati e abbattuti dalla loro variegata nomenclatura.
Litigare e dividersi è nel dna della sinistra italiana e non c'è motivo di pensare che, passata la festa delle primarie, la cosa non si ripeta anche con il nuovo arrivato. Che ha vinto proprio in forza di non avere detto che cosa vuole fare da grande, ma solo declinando generiche e retoriche dichiarazioni di principio.
Fino a che Zingaretti starà fermo è possibile che il consenso al Pd si mantenga o addirittura, sull'onda della ritrovata (finta) concordia, cresca di qualche punto. E non si può dire che inaugurare il suo mandato, come ha fatto ieri, schierandosi con i «sì Tav» costituisca una scelta coraggiosa, tanto meno una novità (tutti, anche Renzi, nel partito sono «sì Tav»). No, Zingaretti andrà misurato sui nodi interni al partito (a partire dalle liste per le Europee) e su temi sensibili come immigrazione, ricette economiche e politica estera. Con l'handicap che al momento lui non controlla i gruppi parlamentari che sono ancora saldamente in mano ai suoi rivali alle primarie e a quel Matteo Renzi che, se lo conosco un po', mai accetterà di fare il numero due di chicchessia.
Viceversa, oggi Nicola Zingaretti fa comodo ai Cinquestelle che, Tav a parte, per la prima volta intravedono una possibile futura alternativa all'alleanza con la Lega. E per lo stesso motivo, ma all'opposto, a Forza Italia.
Perché Salvini, se perdesse il monopolio del feeling con Di Maio, potrebbe accelerare lo sganciamento dal contratto e pensare di tornare nella casa del centrodestra. Se poi farà bene anche al Pd lo vedremo, ma non ci scommetterei un euro.
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