Analfabeti sotto falso nome

Bisogna avere un'incrollabile fiducia in Dio o in se stessi, meglio se coincidono, per ostinarsi a scrivere oggi un libro

Bisogna avere un'incrollabile fiducia in Dio o in se stessi, meglio se coincidono, per ostinarsi a scrivere oggi un libro. Lo fanno tutti, il numero degli autori ha superato il numero dei lettori, come i morti superano i nati. Ogni politico si sente Cesare o Napoleone e lascia ai posteri le sue memorie o, peggio, i suoi romanzi. Mezza umanità pretende di raccontare all'altra metà la sua vita.

Quando pubblichi un libro la gente ti chiede sempre dove lo presenti. In realtà te lo chiede: a) per cortesia mista a pietà; b) per scagionarsi dal sospetto di leggere; c) per risparmiarsi tempo e soprattutto denaro; d) perché considera il libro solo un mezzo per fare altro: piazzarsi, rimorchiare, far serate, amplificare il proprio ego.

È vero, i libri vanno male, ma i festival sui libri vanno bene. Perché ricordano la messa o il circo. Inscenare i libri è figo, leggerli è pesante. In fondo restiamo un Paese di cultura orale se non visiva nel senso delle figure, che ama l'ammuina e la festa patronale, la battuta o solo la pantomima, ma non la solitudine pensante della lettura. I libri vanno male perché c'è fretta, perché c'è crisi, perché c'è il tablet, perché siamo peggiorati, sia noi che i libri.

Ma non deprimetevi, pensate ai classici che scrivevano in società dove oltre i nove decimi della gente erano

analfabeti; ora l'analfabetismo ha un nick name, cioè prosegue sotto falso nome. Si è fatto hi-tech, ma resta ignorante. In fondo la app è una zappa senza testa né coda. Nell'era digitale il dito capisce più del portatore.

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