A piazza Fontana esplode la stagione del terrore

È il 12 dicembre, sono le ore 16,37. In questura non sanno su chi e come indagare. Nella retata viene pescato un anarchico...

A piazza Fontana esplode la stagione del terrore

Millenovecentosessantanove. Sta per arrivare Natale e Milano è bellissima: le sue nebbie, le sue luminarie, le pubblicità che brillano sul palazzo di fronte al Duomo, i venditori di caldarroste, la gente che cammina veloce, le 600 Multipla verdi e nere dei taxi, e poi la Rinascente, l'Upim, i negozi di giocattoli presi d'assalto. La festa di famiglia che s'annuncia, la gioiosa attesa dei bambini: tutto questo scalda il cuore di Milano.

Ma c'è qualcosa di freddo nell'aria che inverno non è. L'autunno è stato durissimo. Scioperi, cortei, violenze. Il clima è brutto. I milanesi che passeggiano non lo sanno: ma i beati anni Sessanta, quelli del boom e della spensieratezza, stanno per finire.

Mercoledì 19 novembre. Un poliziotto del Terzo Reparto Celere, Antonio Annarumma, 22 anni, muore in via Larga durante gli scontri con extraparlamentari intervenuti durante un comizio del segretario della Cisl Bruno Storti al Teatro Lirico. Versione della polizia: Annarumma è stato colpito alla testa da un tubolare rubato in un vicino cantiere edile e lanciato dagli estremisti. Versione della controinformazione di sinistra: è stato un incidente, l'agente è morto nello scontro fra due camionette della Celere.

Venerdì 21 novembre. Mario Capanna si presenta ai funerali di Annarumma per cercare di spiegare l'estraneità del Movimento Studentesco e rischia il linciaggio. Sul Corriere della Sera di sabato 22 novembre viene pubblicata una foto: si vede un funzionario della polizia con l'impermeabile chiaro che strappa Capanna dalle mani di una folla che grida vendetta. Quel poliziotto che salva la vita a Mario Capanna è Luigi Calabresi, capo dell'ufficio politico della questura di Milano.

Domenica 7 dicembre, Sant'Ambrogio patrono di Milano. La prima della Scala è contestata, così come era avvenuto l'anno prima.

Venerdì 12 dicembre, ore 16,37. Una bomba esplode all'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana, alle spalle del Duomo e a fianco della Curia Arcivescovile. Muoiono diciassette persone, altre novanta restano ferite, alcune orrendamente mutilate.

Il seguito è storia.

Chi mise quella bomba?

Difficile non pensare che, se non la mano, la mente fu la stessa di chi collocò, quel pomeriggio, altre quattro bombe. Tre esplosero a Roma tra le 16,55 e le 17,30: la prima alla Banca Nazionale del Lavoro in via San Basilio, le altre due all'Altare della Patria in piazza Venezia. Una quarta bomba venne rinvenuta, inesplosa, all'interno della Banca Commerciale di piazza della Scala a Milano.

Quel 12 dicembre c'era dunque un piano prestabilito per diffondere terrore. Anche per uccidere? Ancora oggi resta un dubbio, che si basa su due elementi. Il primo è che le altre quattro bombe non fecero morti. Il secondo è che alle 16,37 la Banca Nazionale dell'Agricoltura di piazza Fontana, come tutte le altre banche italiane, avrebbe dovuto essere chiusa: era rimasta aperta per le contrattazioni degli agrari. Chi ordinò l'attentato non lo sapeva? È solo una domanda che permane, ma la sostanza cambia di poco. Perché da quel pomeriggio gli strateghi del terrore non poterono più fare passi indietro, non poterono più limitarsi ad atti dimostrativi, le bombe nel mucchio dovevano (dovevano!) ammazzare, e ammazzare innocenti, persone di cui non si conosceva il nome, gente comune. Era cominciata la stagione delle stragi: nelle banche, nelle piazze, sui treni, nelle stazioni.

Chi mise quella bomba in piazza Fontana?

In via Fatebenefratelli, sede della questura, non sapevano dove andare a parare. Dell'estremismo politico la polizia sapeva poco. La sua rete di informatori era altrove. Era nel mondo della vecchia mala, quella cantata da Ornella Vanoni e Enzo Jannacci, quella che a Milano veniva chiamata ligéra, leggera perché c'è un codice d'onore: si ruba e si rapina ma non si uccide. Così avevano fatto anche quelli del colpo grosso in via Osoppo nel 1958: avevano fermato un furgone portavalori con i mitra spianati facendo ta-ta-ta-ta con la bocca per spaventare, rapinatori così ingenui che quasi facevano tenerezza, andarono a Cortina a spendere e spandere come dei gran signori e si fecero beccare subito. E poi sì, c'era stato un salto si fa per dire di qualità con Pietro Cavallero e la rapina al Banco di Napoli in largo Zandonai, con i morti ammazzati dai banditi durante la fuga. Ma la politica era fuori.

Una strage non è una rapina. E i terroristi non li vai a cercare all'Isola, o all'Ortica, o al Giambellino.

Chi mise quella bomba?

Le indagini vennero affidate a Calabresi che aveva 32 anni e si trovò in un casino più grande di lui. La prima cosa fu una retata. E non è vero che andarono a prendere solo gli anarchici: portarono in via Fatebenefratelli estremisti rossi e neri, perché non si sapeva dove andare a parare. Però è vero che la prima pista che prese corpo fu quella anarchica.

Tra i fermati c'era infatti un anarchico che era stato cacciato dal circolo del ponte della Ghisolfa perché considerato una testa calda dagli stessi compagni. Si chiamava Pietro Valpreda, aveva 36 anni e diceva di ispirarsi a Ravachol, l'anarchico francese che nell'Ottocento lanciava le bombe contro i borghesi al grido di Il n'y a pas d'innocents, e finì ghigliottinato. Valpreda era un gran fumatore e aveva quella brutta malattia dei tabagisti che si chiama morbo di Buerger e che colpisce le gambe. Una rogna per lui, che faceva il ballerino ed era stato perfino a Canzonissima con Carla Fracci.

Valpreda corrispondeva alla descrizione fatta da un tassista iscritto al Pci, Cornelio Rolandi, che si era presentato in questura e aveva detto: il pomeriggio del 12 dicembre ho preso su un uomo con una borsa davanti all'ex Albergo del Commercio di piazza Fontana, l'ho portato davanti alla banca, lui è entrato e mi ha chiesto di aspettare fuori, poi è tornato che non aveva più la borsa; infine, arrivati in via Albricci, mi ha detto si fermi, è sceso e se n'è andato. Via Albricci è subito dietro piazza Fontana. Aveva senso prendere un taxi per un percorso così breve? La logica dice di no. È vero però, pensarono in questura, che l'ex Albergo del Commercio era stato occupato dagli anarchici. È vero pure che Valpreda ha quella malattia alle gambe e forse la borsa era troppo pesante per portarla a piedi. Insomma. Rolandi venne convocato per un confronto all'americana, davanti a lui Valpreda e quattro questurini a far da comparse. Il tassista guardò il ballerino e disse: L'è lù, è lui.

La storia, a questo punto, diventa lunga, quasi infinita. Valpreda verrà condannato per associazione sovversiva ma sempre assolto per insufficienza di prove dall'accusa di strage. I processi porteranno ad accertare la responsabilità di cellule di Ordine Nuovo, ma nessun neofascista verrà condannato: chi perché non c'erano sufficienti prove, chi perché nel frattempo era morto, chi - come Franco Freda - perché quando i magistrati hanno sostenuto di aver la certezza, lui era già stato assolto con sentenza definitiva e in Italia ne bis in idem, non si può processare due volte la stessa persona per lo stesso reato. Gli unici condannati dopo tanti processi saranno alcuni agenti del Sid, il servizio segreto della Difesa, colpevoli di avere depistato le indagini. E questo è il punto vero: piazza Fontana disse agli italiani, per la prima volta, che anche nello Stato c'è chi può depistare, c'è chi può mentire, c'è chi può addirittura collaborare con gli stragisti.

Piazza Fontana segna un prima e un dopo.

(4 - continua)

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