Il 1946, l’aborto e poi il declino Così gli italiani si sono stufati

L’Italia? È una Repubblica democratica fondata sul referendum. Oddio, la Costituzione scrive «sul lavoro» ma l’adattamento non è poi peregrino se si considera che subito sotto si legge: «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti» previsti dalla Carta. Appunto quel gerundivo neutro ereditato da un verbo irregolare latino (refero=riferire, riportare) sul quale quella Repubblica appunto è nata. Era il 2 giugno 1946 e si era appena usciti dalla guerra e dal fascismo. Il 9 maggio Vittorio Emanuele III aveva abdicato a favore del figlio Umberto II, un destino crudele: il regno di un mese, l’esilio e un soprannome che non l’ha mai più abbandonato «il re di maggio». Perché quel 2 giugno l’Italia votò un referendum, «Repubblica o monarchia», e una lista zeppa di simboli. Il 45,7% non bastò al re che dovette fare le valigie, vinse il 54,3 che ci volle come siamo: repubblicani. Pesarono sospetti di brogli che gli storici sfatarono, ma a stupire fu l’affluenza tra l’84,2 del Lazio e il 92,5 dell’Emilia: media 89,1%. La lista dei partiti che accompagnava il referendum doveva decidere i deputati dell’assemblea costituente: si formarono tre blocchi (democristiani, comunisti e socialisti) tutti a doppia cifra. Agli altri gli spiccioli. Era la prima volta delle donne al voto e il gentil sesso oltre che al seggio entrò anche in aula.
Insomma la Repubblica era nata con un referendum e ci volle mezzo secolo perché gli italiani si stufassero di quel «sì e no». Dal ’46 al ’95 tutti i quesiti all’esame degli elettori ottennero il quorum tranne caccia e pesticidi. Era il 3 giugno 1990, Radicali e Verdi volevano proibire ai cacciatori l’attività venatoria nei fondi agricoli e chiedere che i limiti della tossicità dei prodotti non fosse decisa dal ministero della Sanità ma da criteri medico-scientifici. Erano convinti che il ministro alzasse le soglie, ma la gente li abbandonò. Come si cominciò a dire allora, era meglio andare al mare. Un ritornello finora sconosciuto; prima l’Italia diede sempre il suo parere.
Già, il suo parere. Perché nello Stivale questo strumento può essere solo consultivo, confermativo o abrogativo. Insomma non si può proporre nulla. È accaduto anche di recente nel 2001 e nel 2006 sui temi costituzionali. La nazione però si schiera, dibatte, si confronta con ardore, senza risparmio di colpi. Come nel ’74, primo quesito al vaglio della gente dopo quasi trent’anni da quel lontano «repubblica o monarchia». Si parlava di divorzio e lo scontro fu tra i più duri con democristiani, missini, monarchici e sudtirolesi contro tutti. Si chiedeva di abolire la legge Fortuna-Baslini del ’70 con cui si introduceva la possibilità di mandare a monte il matrimonio. La campagna fu durissima, i cattolici e la Chiesa spesero ogni sforzo ma non bastò e il 12 maggio il fronte dei no vinse 59,3 contro 40,7.
Motivi di coscienza tornarono ad affacciarsi sette anni dopo con l’aborto. Ai Radicali che chiedevano l’abrogazione di parti della legge 194 tra cui il carcere per chi abortiva, si opponevano i cattolici del Movimento per la vita che ne schierarono uno di segno opposto per limitare la portata del primo. Vinsero i no in entrambi i casi: 88 a 11 per i radicali, 68 a 32 per i cattolici. Ma quell’anno si parlava anche di ergastolo e porto d’armi in mesi in cui gli anni di piombo erano un ricordo fresco. In tv Pannella aggrediva: «È la corte-Beretta (azienda produttrice di armi, ndr). Per chi crede nello Stato di diritto questi giudici costituzionali sono più dannosi delle Br».
Il referendum era diventato uno strumento in mano alla sinistra libertaria, che si sottraeva all’influenza di un Pci ormai nell’orbita governativa, per realizzare il suo programma alternativo. Nel ’78 vennero proposti otto quesiti tra i quali l’abolizione di Concordato, reati sindacali, codice Rocco e via elencando ma la Consulta ne ammise due: finanziamento pubblico dei partiti e legge Reale. Pannella se la legò al dito, accusò la tv di tacere sui referendum e con la Bonino apparvero in televisione imbavagliati per 20 minuti.
Nell’87 il fronte si allargò, merito del nucleare e della paura del dopo Cernobyl, dove l’anno prima saltò la centrale nucleare. Ai radicali diedero manforte socialisti e liberali e la vittoria fu sicura grazie alla vasta eco prodotta dai media, merchandising compreso, con gli adesivi del sole che ride e la scritta «Nucleare? No grazie» che i più dotti esponevano in versione yankee: «No nuke». Da allora queste consultazioni però persero appeal. Colpa forse del voto del ’93 che tra gli otto quesiti chiedeva l’abolizione di tre istituti ministeriali: partecipazioni statali, agricoltura e turismo. Stravinsero i sì ma l’unico dicastero a sparire fu il primo, gli altri due prosperano tuttora e sono passati 16 anni. Come per la responsabilità delle toghe: inapplicato. Gli italiani non hanno dimenticato la beffa.

Nel ’95 arrivò una raffica di 12 schede, troppe per una nazione stufa. Il quorum fu raggiunto ma la seduzione calò: da un’affluenza media del passato intorno al 70% si scese al 58. Da allora gli italiani hanno deciso che a giugno si va al mare.

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