Politica

A 25 anni incassano la pensione d’anzianità

Il maggior numero di «anziani» in Lombardia, Campania, Lazio, Sicilia e Veneto

Silvia Marchetti

da Roma

A venticinque anni, negli Stati Uniti o in Inghilterra si è già al primo impiego, se non al secondo. In Italia, si è invece in pensione, seppur con una «baby-baby» pensione di 929 euro. Non è una barzelletta, ma il simbolo di un Paese dove non solo si entra tardi nel mondo del lavoro, ma dal quale si esce ancora prima.
Stando alle «inquietanti» tabelle fornite dalla Ragioneria Generale dello Stato nel volume sui «Trattamenti pensionistici dei dipendenti pubblici nel 2003», su un totale di 2.429.320 pensionati sono diciassette quelli under 30 che godono di un assegno di anzianità o di vecchiaia. Sei erano ministeriali, nove lavoravano in enti locali, uno nella sanità e un altro nella scuola. Mentre sarebbero circa 80mila quelli sotto i 50 anni, ossia il 3,3% del totale dei pensionati relativi al settore pubblico. Cifra che sale a 495mila se si considera gli ex-lavoratori sotto i sessant’anni, il 20 per cento di tutti quelli «in pantofole».
Lo studio della Ragioneria Generale offre un quadro completo, indicando, per ogni classe di età, il numero delle pensioni e il loro importo medio annuo nei settori dello Stato, della scuola, della sanità e degli enti locali. Certo, le persone che hanno scelto di ritirarsi in tenera età non godono di assegni stellari: oltre alla 25enne che intasca poco più di 900 euro all’anno, battendo il record dei baby-pensionati, c’è la collega di 26 anni che dopo una «carriera» nella sanità percepisce 2.065 euro, ma un ex ministeriale, a 27 anni soltanto, può già contare su una rendita vitalizia meno insignificante: 13.708 euro all’anno. Due sono i ventottenni che non timbrano più il cartellino: il primo riceve un trattamento di vecchiaia (15.198 euro all'anno) dallo Stato e il secondo una pensione di anzianità degli enti locali (2.144 euro all’anno). Seguono due pensionati ventinovenni degli enti locali (reddito medio 12.500 euro) e nove trentenni con una pensione annua, di vecchiaia o di anzianità, tra i 10mila e i 14.500 euro.
La baby-pensione va di moda soprattutto nella sfera degli ospedali, che registra il record di 2.225 «giovani» ex-medici. Ma anche nel mondo dell’istruzione, dagli asili alle elementari, dove sono circa 361 le maestre o i maestri che hanno lasciato le classi e gli alunni. Mentre 89 ufficiali giudiziari hanno abbandonato i tribunali.
Tuttavia, c’è una «regola» che accomuna il mondo dei «baby-pensionati» a quello dei lavoratori «incalliti» che si ritirano a 65-70 anni. Ossia che è la donna che «torna» a casa prima dell’uomo, vuoi per motivi di famiglia (figli a carico) o altro. Sotto i 50 anni sono 45.161 le rappresentanti del gentil sesso già in pensione, contro i 35.188 colleghi maschi.
In questa «panoramica» a 360 gradi della Ragioneria Generale sui pensionati d’Italia, quelli che se la godano meglio di tutti sono i ministeriali e gli ex dipendenti della scuola (il 60 per cento dei censiti), con un assegno di circa 18.360 euro l’anno. Seguono gli ex impiegati degli enti locali, che rappresentano il 38% del totale e possono contare in media su circa 14.320 euro annuali.
La tendenza ad abbandonare presto l’ufficio colpisce nello stesso modo sia gli italiani del nord che del sud, sfiatando così lo stereotipo che vuole i meridionali meno «lavorativi» dei settentrionali. Anzi, quasi ribaltandolo: spetta infatti alla industriosa Lombardia il primato per il maggior numero di under-50 a riposo (10.264 «neo-pensionati»), che strappa così il primo posto alla Campania (9.352), al Lazio (8.463), alla Sicilia (7.145) e al Veneto (6.277). Il quadro geografico è più che equilibrato: le otto regioni del Nord registrano 32.439 pensionati sotto i cinquant’anni, poche centinaia in meno dei 32.936 delle otto regioni del Sud e delle isole. Con una differenza sostanziale al centro dello stivale, dove i numeri si dimezzano arrivando a 14.860 ex-lavoratori quarantenni.
Insomma, siamo di fronte a un fenomeno che non si può più definire la sindrome dei «baby-pensionati», ma dei «neo-pensionati». Questi «pensionati neonati» appaiono sempre di più come una disfunzione del mondo del lavoro, un’anomalia che difficilmente trova parallelismi nello scenario europeo.

E che va a tutti costi raddrizzata.

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