Dopo 30 anni il «maestro» svetta in cima all’hit parade

Un disco che ritorna alle origini e rivendica il primato dell’amore

Cesare G. Romana

da Milano

La notizia riguarda molto gli strateghi del marketing e assai poco il critico musicale o chi privilegia, rispetto a quelli di bottega, i meriti artistici. E tuttavia eccola: Modern times, l’appena uscito capolavoro di Bob Dylan, già svetta in testa alle classifiche di vendita americane, a una settimana dalla sua uscita avvenuta negli Usa il 30 agosto. Ché in così pochi giorni il nuovo disco ha già venduto, nei soli States, centonovantaduemila copie: quanto basta a garantirgli il primo posto nell’hit parade d’oltreatlantico.
Il successo americano ricalca quello, analogo, ottenuto da Modern times nel mondo: l’album ha già raggiunto il primo posto nelle classifiche australiana, canadese, neozelandese, irlandese, norvegese, danese, svizzera, piazzandosi pure al terzo posto, con sessantamila copie, in quella inglese. Quanto all’Italia, dove i dylaniani sono legione, l’approdo nell’hit parade dovrebbe essere imminente.
Notizie irrilevanti? Mica tanto. Certo, lo stesso Dylan non si è mai preoccupato della vendibilità delle sue opere, e questo è segno non secondario della sua grandezza. Certo, ancora, gran parte dei suoi album ha ottenuto, anche sul mercato, adeguati consensi, attestandosi nella zona alta dell’hit parade internazionale. Ma era dal 1976 di Desire, così come nel ’75 con Blood on the tracks e nel ’74 con Planet waves, che il maggior cantautore vivente non si piazzava al primo posto delle charts americane. Il fatto che il nuovo disco vi sia riuscito, nonostante l’assenza d’una vera promozione, dimostra che anche in questi modern times, così impoetici, inestetici e disillusi, la voce aliena della poesia costituisce una necessità e un conforto, per un numero crescente di persone. E che la capacità, da parte del pubblico, di cogliere e accogliere i valori autentici è ben più diffusa di quanto pensa l’industria discografica, sempre più incline ai prodotti di «facile ascolto», modaioli e futili.
Ora, Dylan è artista restio all’autocelebrazione, e alieno dal lasciarsi imbalsamare nel proprio mito. Dunque, è difficile immaginarlo intento a festeggiare un risultato commerciale, la cui importanza va tuttavia ben oltre la logica angusta del mercato, ed è la conferma concreta di alcuni meriti: l’altissimo livello del messaggio dylaniano, il prevalere della classicità, che è senza tempo, sulle mode, che sono effimere, il predominio dell’ispirazione genuina sulla commercialità fine a se stessa. Ma ancora gioca, a favore di Dylan, l’assenza di nuovi talenti, capaci di rimpiazzare i «vecchi» maestri mutuandone il carisma: problema cruciale anche in Italia, dove non si intravede chi potrà degnamente sostituire i De André, i De Gregori, i Guccini, i Gaber, i Dalla.
Ma forse c’è anche una motivazione «politica», nel successo di un grande artista di sessantacinque anni, amato dalle anime semplici così come dai letterati, già candidato al Nobel, oggetto di tesi di laurea e di severe analisi accademiche, che ora «ruba» il vertice dell’hit parade ai giovani divi del pop e della canzone usa e getta. C’è l’indomita provocazione d’una «piccola voce accanita che difende l’amore - lo scrisse Luigi Squarzina, era il 1965, a proposito di Gino Paoli - nel freddo nel frastuono» d’una civiltà disamorata e violenta. In Modern times Dylan invoca, appunto, la panacea dell’amore contro l’insipienza algida dei potenti, il flagello delle guerre, l’inadempienza dei politici di fronte a catastrofi come l’uragano che ha distrutto New Orleans.

E si pone così in sintonia con un pubblico sempre più vasto, nel far suo il disagio espresso da Bruce Springsteen, dai Rem, da Patti Smith e da altri grandi del rock, nell’ormai storico tour «di protesta» organizzato dal Boss, s’avvicinavano le Presidenziali.

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