In 5 miliardi sono perseguitati per la loro fede

I temi religiosi sono tornati in auge da quando i terroristi islamici ci hanno fatto capire, a suon di bombe e sgozzamenti, che c’è al mondo un sacco di gente per cui la religione è una cosa importante. Così, ci siamo dovuti interessare al fatto - e, dunque, accorgere - che al mondo c’è anche un sacco di gente per niente libera di praticare la religione che preferisce. Ma non sapevamo che quest’ultima categoria di persone costituisce la maggioranza schiacciante del genere umano. Addirittura, più di cinque dei sei e rotti miliardi di abitanti del pianeta.
Ora per la prima volta è stata effettuata una indagine dettagliata, nazione per nazione, e ne è scaturito un rapporto di settantadue pagine, dal titolo Global Restrictions on Religion. December 2009. Stilato dal Pew Forum on Religion & Public Life di Washington, ha una precisione scientifica che ha risvegliato l’attenzione del vaticanista Sandro Magister, il quale gli ha dedicato una puntata del suo visitatissimo blog. L’indagine del Pew Forum analizza ben 198 nazioni e copre due anni, dal 2006 al 2008. Manca la Corea del Nord per ovvie ragioni: l’ossessione per la segretezza tipica dei regimi comunisti non fa trapelare alcun dato all’esterno. Detta indagine tiene conto sia delle restrizioni alla libertà religiosa imposte dai governi sia quelle provocate dalla pressione sociale (che può essere maggioritaria o di gruppi particolarmente violenti).
In alcuni posti i due tipi di pressione si sommano, in altri prevale l’uno o l’altro. Uno dei diagrammi che visualizzano numericamente i risultati prende in considerazione i cinquanta Paesi più popolati. Su questi spiccano India e Cina, la cui popolazione rispettiva supera il miliardo di individui. Per motivi diversi (pressione sociale in India, restrizioni governative in Cina), ecco già più di due miliardi di persone con problemi riguardo alla libertà religiosa.
Se aggiungiamo non pochi Paesi islamici, et voilà: oltre il settanta per cento dell’umanità vive in posti dove adorare in pace chi si vuole va dal molto difficile all’impossibile. In India il governo centrale predica la libertà religiosa ma ha approvato leggi anti-conversione. Nel Paese, comunque, sono certi gruppi fondamentalisti a fomentare l’odio religioso. Indù e musulmani fanno la loro parte, talvolta difendendosi, talaltra attaccando. In certe zone a farne le spese sono i cristiani, com’è noto. In Cina (ma anche in Vietnam) la popolazione non ha alcun problema con le diverse fedi; sono i governi a praticare la persecuzione. Nigeria e Bangladesh offrono dati differenti: le autorità sono neutrali (per ora) mentre le varie fazioni ogni tanto esplodono in pogrom ai danni del credo altrui. L’unico Paese in cui le coordinate cartesiane si sommano (ostilità sociale e divieti governativi) e registrano i picchi massimi è l’Arabia Saudita, che per la religione musulmana (di cui custodisce due dei tre «luoghi santi» ai sunniti) è interamente «terra sacra». Qui, ormai è universalmente noto, anche l’atto di culto privato diverso da quello ufficiale è reato penale. Tra gli altri Paesi interamente (e ufficialmente) musulmani, i più popolosi sono il Pakistan e l’Indonesia. I loro dati si discostano, sì, da quelli sauditi, ma mica tanto. In più, la situazione è sempre precaria, il che vuol dire che in qualsiasi momento potrebbero balzare ai vertici della classifica. Anche l’Egitto non scherza con il suo dieci per cento di cristiani copti. Pure qui ogni giorno è buono per un aggiornamento del posto in classifica. Si tenga conto che l’Egitto detiene l’università islamica più autorevole dell’intera «sunna» (la comunità dei fedeli musulmani) e da essa scaturiscono le interpretazioni coraniche più seguite. E poi c’è l'Iran, repubblica «islamica» fin dal nome, di credo sciita: le restrizioni in questo Paese appartengono ai due campi presi in considerazione dall’indagine del Pew Forum. Ma non si pensi che la palma dell’intolleranza spetti al solo islam.
Anche i Paesi ufficialmente buddisti fanno la loro parte: Sri Lanka, Myanmar e Cambogia reprimono in vario modo tutte le religioni diverse da quella di Stato. A volte le restrizioni colpiscono versioni diverse dello stesso credo. È il caso dell’Indonesia, ufficialmente musulmano, nel quale gli Ahmadi non hanno vita facile. Lo stesso in Turchia per gli Alevi. In Turchia, poi, la Chiesa cattolica non ha riconoscimento ufficiale, cosa che comporta non piccole restrizioni in campo amministrativo. Come nella cristiana Grecia: qui solo gli ortodossi, gli ebrei e i musulmani hanno status giuridico (il che significa libertà di organizzazione e di proprietà), non così i cristiani di altre confessioni. Mettendosi davanti al planisfero squadernato dal rapporto del Pew Forum ci si accorge subito che l’area della libertà religiosa è piuttosto limitata, nel mondo, e si trova principalmente nei Paesi a maggioranza cristiana come le Americhe, l’Europa, parte dell’Africa sub-sahariana e l'Australia. Ma neanche qui sono tutte rose e fiori.
La laicissima Francia impone restrizioni a tutti, dal turbante sikh al velo islamico ai crocifissi di grosse dimensioni. In Gran Bretagna, quantunque la Regina sia anche capo della chiesa statale, è il politicamente corretto a dettar legge, tant’è che le maggiori restrizioni le incontrano proprio i cristiani.
Un caso a sé (ma non troppo) è Israele, il cui governo accorda privilegi notevolissimi alle minoranze ultraortodosse dell’ebraismo, quantunque queste ultime costituiscano una frazione numericamente irrilevante della popolazione complessiva. Ma da qui in avanti si entra nella cronaca: è recentissima, per esempio, la condanna da parte del rabbinato ortodosso nei confronti di quelli che sputano addosso ai preti cristiani. Come abbiamo anticipato più sopra, per non pochi Paesi la situazione è ballerina.

Per esempio, solo grazie al viaggio all’Avana di Giovanni Paolo II il mondo si rese conto che nella Cuba castrista era vietato festeggiare il Natale. Dunque, occhio alla cronaca (vedi quel che accade in Malesia, dove ai cristiani si vuol vietare l'uso della parola «Allah»), in attesa del Rapporto Pew 2010.

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