Nella folla moderna senza più grazia ho visto una donna vestita da donna

Una nota di costume sulla modernità secondo Giorgio Torelli pubblicata l'1 febbraio 1981

Nella folla moderna senza più grazia ho visto una donna vestita da donna

Stanno esaltando il mezzogiorno al campanile di San Barnaba, il suono tenta di slargarsi sopra gli alberi e contro i palazzi di cipiglio milanese.

Arrivo a bordo dell’attempata Volvo blu e parcheggio in sosta vietata, come so e non posso. Sto aspettando il dottor Carlina, devo rilevarla. Fra poco uscirà dal suo ambulatorio scolastico, sarà una cosa cara e minuta nel contesto soffice della pelliccia, alzerà la mano guantata da lontano perché mi ha avvistato come colore: se è blu, devo essere io. Con gli occhiali, più di tanto non può. Metterò in moto per raggiungerla all’angolo. Navigando nel traffico ci aggiorneremo, abbiamo sempre arretrati da dirci, parliamo e parliamo, siamo grandi amici.

L’eco del bronzo s’è dissolto e il dottore in pelliccia non arriva. L’avranno fermata all’ultimo momento. Attendo con fiducia dentro l’abitacolo, metto un Beethoven in cassette e faccio finta d’essere al caffè: su una poltroncina levigata dal tempo, invece che dentro il sedile di pilotaggio con cintura. Se c’è una cosa che vorrei, nella vita pallida di Milano, sarebbe la sosta a un caffè di cultura francese: d’inverno, dietro le vetrate, i cristalli tenuti tersi, tè al limone e pipa con tabacco che arda adagio; d’estate, tutti i tavolini sotto il tendone a righe, l’occhio sul passo della gente, le quiete riflessioni, il farsi sfilare il mondo fra le dita, il cielo che mette in scena un evento di luci.

Sono soltanto voglie. A Milano, indurita nella vita quotidiana, il caffè con vista sul passeggio non c’è.

Non c’è neanche il passeggio; solo gente che si barcamena. La mia città di provincia è sempre più lontana. Là, c’erano le pasticcerie con panorama su via Cavour.

La sala dove stare tutti allineati ai tavolini, guardando il divenire della vita da dietro i cristalli, risultava come un grande scompartimento di prima classe, velluti, centrini, gente eretta, abitudinari, abbonati, giovani coppie, calici, vapori cilestrini di fumo. Per questo si chiamava al vagon, il vagone. Il vagone stava fermo; si muoveva la città davanti alle sue vetrate.

Era pura contemplazione con lampi di idee e spunti di ingegno, da prendere subito appunti sul rovescio dei tovagliolini di carta. Il meglio compiva la sua sfilata a passi di certezza: per tre attimi, si profilavano creature di leggenda, balenavano, i fianchi alti, la sfida della beltà emiliana, gambe disegnate da una natura affettuosa e ispirata, la falcata, un’eleganza istintiva, l’armonia dei colori e delle forme, sguardi d’occhi profondi. Se non mi si credesse, lo garantisco: era così. Parlo di trent’anni fa, quando quel vagone potevo consentirmelo ogni tanto, non avevo le lire abituali per l’accesso e neanche si poteva consumare di regola una minerale piccola.

Be’, sono tutti paragrafi della mia vita, forse sospiri. La verità è che, facendomi il vagone da solo dentro la Volvo con musica registrata e cristalli che la pioggia non lava da tempo, non mi diverto di sicuro, e neanche mi induco a prendere appunti. Diciamolo: poche cose sono diventate brutte, sciatte, impensabili, sgraziate e barbaresche come una folla d’oggi. Gli uomini alla vichinga di terza mano; le giovani donne abborracciate, in panni maschili stazzonati, giubbotti da esploratore di serie, pantaloni da sciabecco, sciarpe di lana grossa girate sei volte, i capelli come vengono, bisacce di fanteria, inquieto l’occhio se non sinistro, talora la sigaretta ostentata in pubblico come provocazione ideologica, il fumo attorno, le scarpe ciabattate.

Non ci sono più una linea, un gusto, un modo, un’allegrezza di portamento, una distinzione di tratto; tutto livellato al peggio, allo sdrucito, al fagotto, alla marcialonga e, in fine, all’impersonale. Mi viene in mente Pino, che, pur vivendo nello strame delle sue cavalle e in vista soltanto di colli seminati dal sudore, afferma sempre, con certezza: «Incredibili le donne d’oggi: a vent’anni scelgono d’essere barbone. E bisogna aspettare che passi una quarantenne per sperare ancora nella classe». Io gli dico sempre: «Sei straordinario: l’hai capito da quassù - sui dossi - come il mondo sia sfiorito».

Il dottor Carlina tarda ancora, questione di attimi, arriverà. Continuo a visionare il passaggio delle mute identità circolanti. Finché, ecco: profilandosi dal fondo, sicura nell’ondeggiare sobrio, un mantello chiaro, le gambe sottili nelle calze, le scarpine a modo, raccolti capelli che ricadono a coda bionda sulle spalle erette, avanza una vera signora. E il mio parabrezza diventa subito vagone la filmo con gli occhi mentre ingrandisce alla mia volta, la gusto, l’approvo, lei non sa di darmi una consolazione, transita di fianco alla Volvo, non mi importa di girare la testa per seguirla con gli occhi allietati. Sento di doverle subito riconoscenza: ha ingentilito, per un attimo, la città. La lodo dentro di me. Prenderei appunti, stavolta.

Finalmente il dottor Carlina all’angolo. Alza la mano, lascio il parcheggio abusivo, le apro la portiera dal di dentro.

E subito, come un adolescente invaghito, le riferisco con foga: «Carlina, pensa, ho visto una donna vestita da donna». E gliela decanto, la descrivo, la narro. Lei sorride indulgente, dolce: «Starai mica invecchiando?». Le prendo la piccola mano da signora.

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