Un anno di conflitto. Salvare Israele è lottare per l'Occidente

Il 7 ottobre è una data che segnerà il popolo ebraico, ma non solo. Perché salvare Israele significa lottare per la libertà dell'Occidente

Un anno di conflitto. Salvare Israele è lottare per l'Occidente

Uscire dal 7 ottobre è difficile. Chi ha innanzitutto il compito di riuscirci è il popolo ebraico, ed è solo una tappa nel suo cammino infinito. Il 7 ottobre pone oggi interrogativi cui possiamo rispondere, o da cui possiamo fuggire. Le domande poste al popolo ebraico sono di nuovo questioni di fondo per tutta l'umanità, riguardano il bene e il male, l'inizio e la fine, la corrente del tempo millenario e come afferrarla per affrontare il momento presente, quando le lacrime scorrono e si ricostruisce mentre si combatte.

Oggi, stanchi dello sforzo, feriti di nuovo quasi a morte, gli ebrei si guardano intorno e cercano sostegno, ma non lo trovano. A volte qualcuno si domanda se l'esistenza ebraica valga il prezzo che esige. Se lo chiedeva, dopo la Shoah, Abraham Heschel, il filosofo che dà un senso al coraggio di essere speciale come lo è sempre un ebreo, e di renderlo un bene universale. Dunque, il 7 ottobre mette di nuovo il popolo ebraico di fronte a una svolta che si riverbera su tutto il mondo; lo rende causa, responsabile, vittima, protagonista e, come è già accaduto nel passato, lo pone al centro della storia dell'intero mondo occidentale.

Oggi, come ebrea, io sono col mio popolo. Non la spettatrice ma la protagonista, in quanto obiettivo del 7 ottobre con tutto il mio popolo: la peggiore strage razzista di ebrei dai tempi della Shoah, e di nuovo, nei millenni, una donna nella grande massa che si mosse dall'Egitto dov'era in schiavitù, che lottò contro i Romani e ne fu travolta, per restare tuttavia abbarbicata a Gerusalemme, un germoglio piccolo della vicenda che ci ha visto passare fra le mani delle Crociate, degli arabi, dell'Inquisizione, dei pogrom, del comunismo, della Shoah, e resistere, e ricostruire, ricostruire, ricostruire fino al ritorno alla nostra casa originaria.

Oggi siamo noi, qui in Israele, ancora una volta, i soliti, gli stessi ebrei, lo stesso popolo. Niente è cambiato, abbiamo resistito nei secoli e adesso un'altra spaventevole ventata di antisemitismo accompagna le nostre vicende, e di nuovo dobbiamo superare in valore e sopravvivenza, come sempre - e lo faremo - tutti gli altri 7 ottobre della nostra storia, fino a questo. Nessun altro lo farà se non noi stessi, il solito popolo ebraico. Anche stavolta, tutti coloro che vogliono vivere in pace e in libertà, cristiani o musulmani o di qualsiasi altra fede, dovranno decidere di essere al fianco, avendo appreso la lezione della storia, dei loro indispensabili fratelli.

La nostra esistenza è vitale per l'Occidente, la nostra morte è l'obiettivo di chiunque dell'Occidente sia nemico. Dobbiamo combattere insieme una battaglia non ovvia: la scelta di combattere l'antisemitismo è dura. Possiamo arrenderci perché siamo disgustati, stanchi, impauriti. Oppure credere nell'inestimabile prezzo dell'ebraismo vivo, del suo popolo che da millenni cammina su questa terra, carico dei Dieci comandamenti, della storia della civiltà e della democrazia, dell'intraprendenza con cui ha saputo costruire una nazione dopo la catastrofe della Shoah, e della determinazione con cui, fra mille critiche, la difende. Mai gli ebrei e l'Occidente sono stati così associati nel compito di difendere l'aspirazione del mondo democratico ai «diritti umani». I diritti di tutti gli uomini.

Quando un ebreo agisce, egli è sempre e prima di tutto - come mi sento io appena dico «buongiorno» a chicchessia - un ebreo, o un'ebrea; la sua identità è un dono per chi sta dalla parte di Israele e lo coadiuva nel difendersi e in definitiva nell'esistere. Gli ebrei, per il fatto di restare sé stessi, offrono all'umanità un servizio faticoso e indispensabile. Tocca oggi a chi li vuole accompagnare pagare il suo prezzo con coraggio. Oggi è il tempo di combattere insieme perché l'antisemitismo minaccia il mondo occidentale e le sue libertà. La terra che Dio consegnò agli ebrei, Israele, è il pegno della salvezza morale di tutti gli uomini, e Israele cerca di conservarlo per tutti in una guerra crudele come non mai. (...)

Abbiamo cercato di spiegare come il 7 ottobre sia una data che non disegna solo una guerra per cancellare Israele. Non è affatto vero che, se Israele venisse eliminata dalla carta geografica, allora il Medio Oriente si acquieterebbe, il mondo avrebbe un diverso rapporto con il mondo arabo e islamico, la furia di chi vuole la guerra sarebbe placata. No. La sparizione di Israele che desiderano gli antisemiti, i fanatici, gli stolti, lungi dall'essere la soluzione di un conflitto sempre accusato di agitare il mondo intero, toglierebbe agli Stati Uniti, all'Europa, all'Oriente moderato lo scudo che si frappone fra loro e una guerra di dominio. Chi la vuole continuerebbe adesso a combatterla senza impaccio, con il suo schieramento largo, ben definito, ricco di armi e deciso a dominare il mondo.

Senza Israele non ci sarebbe pace, ma una grande guerra. Senza la forza e il coraggio strenuo di Israele, il disegno iraniano di dominio, unito a quello dei suoi proxy e anche della Turchia, dilagherebbe prima in Medio Oriente e poi oltre i suoi confini, così come senza l'eroica resistenza ucraina l'imperialismo russo esonderebbe prima nell'Est europeo, e poi chissà fin dove. Di questo comincia a dare qualche segnale di consapevolezza l'Unione Europea, nominando finalmente un responsabile per la difesa comune; anche Mario Draghi, di fronte alla plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo, ha spiegato che è un imperativo, se l'Europa vuole rimanere libera e padrona del proprio destino, «aumentare la capacità produttiva europea nei settori strategici ed espandere la nostra capacità industriale per la difesa e lo spazio». E anche nella Nato, i contributi dei vari membri per l'accrescimento della capacità militare hanno preso la via di un maggiore impegno. (...)

Gli Hezbollah sono in possesso di un numero abnorme di missili iraniani, nascosti in strutture civili per ogni dove in Libano, che in caso di guerra diventeranno subito il maggiore obiettivo dell'esercito israeliano: questo di nuovo creerà una guerra diffusa e difficile che, come nel 2006, vedrà l'uso da parte di Nasrallah di strutture civili e scudi umani. E di nuovo, ancora e ancora, si alzerà l'onda pseudopacifista che cercherà di fermare Israele, come è accaduto e accade con Gaza. E come è accaduto anche per l'Ucraina, il finto pacifismo chiederà di nuovo a gran voce ipocriti blocchi di armi e munizioni, come quelli che Israele ha già subìto in questi mesi da parte di Spagna, Inghilterra, Germania, e anche dagli americani.

L'origine della guerra scatenata il 7 ottobre la troviamo nel tentativo da parte iraniana di sabotare quell'inusitato e audace movimento di rinnovamento e pacificazione in Medio Oriente conosciuto come i Patti di Abramo. Esattamente nel momento in cui l'Arabia Saudita era in procinto di rendere più larghi e solidi quegli accordi, l'Iran ha fatto muovere Hamas, poi Hezbollah e in seguito anche gli Houthi e le milizie irachene, fino al West Bank: andava bloccato un cammino che, stavolta sul serio, rappresentava e rappresenta una speranza di pace per il Medio Oriente, e quindi un efficace boicottaggio dei piani degli ayatollah.

Mentre scriviamo, giornali iraniani riportano che, proprio nel quarto anniversario degli Accordi siglati il 15 settembre 2020, il viceministro degli Esteri iraniano, Majid Takht-Ravanchi, ha cercato rapporti più stretti con i Paesi del Golfo. Il nuovo presidente, Masoud Pezeshkian, ha rilasciato a sua volta all'Irna, l'agenzia di Stato iraniana, dichiarazioni in cui si proclama «desideroso di interagire con gli otto Paesi arabi sul bordo del Golfo Persico». L'Iran vuole una falange di Stati arabi mobilitati contro Israele, e vuole essere il loro riferimento: è riuscito a far mediare un accordo con i sauditi dalla Cina, il nuovo presidente è andato in Iraq, considerato porta d'ingresso nel Golfo, tratta con la Turchia, consolida la sua presenza armata in Siria, stazione di transito delle armi che distribuisce. Ogni volta che si sa di un intervento sul territorio siriano se ne individua l'origine israeliana, mai rivendicata, nel continuo e instancabile bombardamento a siti, a uomini, a fabbriche e depositi d'armi iraniane e anche a fabbriche di veleni destinati ad armi chimiche e biologiche. Non solo l'Iran sorveglia i suoi amici per mantenerli attivi contro Israele e Stati Uniti, ma li guida ormai verso numerosi attacchi diretti a basi americane in Iraq e in Siria, che segnalano la volontà di allargare agli Stati Uniti un'ostilità sempre dichiarata.

Per l'Iran, i Patti di Abramo sono un'inconcepibile frattura nel mondo musulmano: i rapporti di Israele col Bahrein li ha sempre ritenuti un affronto diretto, come anche l'accordo con l'Oman. Hamas è ospite fisso del Qatar, che infatti, nonostante il suo rapporto con l'America, non ha mai accettato gli accordi, e che ha in mano uno strumento di potere gigantesco: Al Jazeera, la televisione in cui lavoravano come giornalisti anche alcuni miliziani che hanno partecipato al pogrom del 7 ottobre. (...)

Se impedire il cammino dei Patti di Abramo è stato il motivo che ha reso urgente l'attacco del 7 ottobre per l'Iran e i suoi proxy, verificarne la resistenza e disegnare per il futuro un Israele che, forte della vittoria, sia di nuovo il partner di una pace regionale, è il modo vero di cercare la pace. Nel marzo 2023 si era temuta per gli accordi una definitiva battuta d'arresto, con il ripristino delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran, ma il cammino dei Patti, nonostante tutto, non si è interrotto. Oggi sappiamo - le informazioni sono state oggetto di pubbliche dichiarazioni da parte di Stati Uniti e Gran Bretagna - che in cambio di tecnologia nucleare e spaziale fornita a Teheran, che servirà agli ayatollah per la costruzione della bomba atomica, Mosca (che già detiene il maggior numero di testate nucleari al mondo) sta ricevendo dal regime iraniano tecnologia per fabbricare da sé i droni. Molti ne aveva già comprati dall'Iran all'inizio dell'invasione dell'Ucraina, mentre il presidente Zelensky ha denunciato l'uso da parte della Russia di armi nordcoreane sul territorio ucraino.

Il gruppo di Paesi europei implicati nei negoziati sul nucleare con l'Iran (abbandonati dagli Stati Uniti nel 2018), cioè Francia, Germania e Gran Bretagna, ha dichiarato - ma lo si sa da tempo - che le riserve iraniane di uranio arricchito confermano la costruzione della bomba atomica, e non usi energetici civili. Anche il missile nucleare iraniano capace di percorrere 8mila chilometri orari è sempre più vicino alle mani degli ayatollah.

I segnali dell'attivazione dell'Asse del Male sulla strada dell'aggressione all'Occidente si moltiplicano. Esercitazioni navali congiunte Russia-Cina-Iran; intensificazione dello scambio di know-how nucleare con la Corea del Nord, a sua volta ben incamminata nella moltiplicazione del suo arsenale distruttivo; sinistri scambi di cortesie russo-cinesi, con Putin che ha bisogno di Xi Jinping per continuare a combattere in Ucraina e in cambio fornisce alla Cina tecnologie innovative di costruzione dei sottomarini nucleari.

Come è evidente, la posta in gioco non è solo la sopravvivenza di Israele, ma un nuovo ordine mondiale, di cui la sirena antisemita canta l'orrida marcia di ingresso nel secolo. Nei giorni in cui l'atmosfera mondiale si scalda, mentre le cronache internazionali preferiscono segnalare quotidianamente la crisi interna di Israele e le manifestazioni che chiedono un cambio di governo, si segnala anche un altro incredibile fenomeno: «Israel Chai», «Israele vive», nonostante difficoltà che per chiunque sarebbero insopportabili, e lo stesso si può dire dell'Ucraina. Anche di Zelensky si disse, sin dall'inizio, che prima o poi avrebbe dovuto arrendersi, quindi tanto valeva che accettasse subito le imposizioni territoriali e le diminuzioni di dignità e di sovranità volute dalla Russia. E invece, resistendo, ha dimostrato al mondo che Putin può essere combattuto e persino battuto, che l'Europa deve vincere sull'antica minaccia russa.

Così Israele: il fatto che Netanyahu tenga duro a fronte delle pressioni di tutto il mondo perché il Paese si arrenda; la resistenza dolorosa ma tenace, in una guerra lunghissima, con pesanti perdite quotidiane e aggravata dall'angoscia per i rapiti; l'incredibile impresa del 17 settembre 2024 per cui il Mossad, tornato all'astuzia leggendaria delle origini, ha fatto esplodere i beeper della rete degli ufficiali di Hezbollah in Libano, infliggendo all'organizzazione una crisi senza precedenti e lasciando l'Iran stupefatto. Tutto questo ricorda la sicurezza di un destino di vittoria in cui Israele confida comunque, fino alla fine.

Così fu fin dall'inizio.

Nella Guerra del '48, quando Israele, attaccato da tutti i Paesi arabi mentre ancora consisteva in un avventuroso aggregato di immigrati, sembrava votato a una sconfitta certa; nel '67, in cui appariva destinato a soccombere di fronte alla potenza di Egitto e Siria, sostenuti dall'Unione Sovietica; nel '73, quando l'attacco a sorpresa di una coalizione araba fece migliaia di morti israeliani e il Paese sembrò prossimo al collasso definitivo ma poi vinse.

C'è una canzone che dice «lo biglal ha coah, rak biglal ha ruah», «non a causa della forza, ma solo dello spirito». Se questo spirito lo ritroverà anche la civiltà occidentale, la guerra sarà vinta.

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