Dicevano i francesi, senza aver mai conosciuto Cesare Maldini, ottant'anni proprio oggi, che la popolarità è come la giovinezza: una volta passata non torna più. Falso. La popolarità di Maldini magno, il primo della grande dinastia che poi ci ha dato anche Paolo, uno dei più forti difensori del mondo, non è svanita certo il giorno in cui ha smesso di fare il calciatore nel 1967, quando vestiva la maglia del Torino, dopo la gloria milanista, 4 scudetti, la prima coppa dei Campioni italiana nel 1963 con Rocco in panchina e Josè Altafini a fare cose immense dopo il grande lavoro della difesa, 22 presenze in nazionale, dopo l'esordio con la Triestina il 24 maggio del 1953; popolarità che non è certo mancata anche quando ha chiuso una lunga carriera di allenatore al mondiale del 2002 con il Paraguay, passando attraverso la gloria del mondiale '82 da vice di Enzo Bearzot, i tre titoli europei alla guida dell'Under 21, il mondiale dell'98 alla guida degli azzurri buttati fuori dalla Francia, che poi vincerà il titolo, ai calci di rigore nei quarti di finale.
Ancora oggi ti vengono i brividi se puoi chiacchierare con Cesare di calcio, della vita, della sua dinastia bevendo un prosecco, parlando con nostalgia delle bighe, il pane servolano che sapevano fare soltanto le pagnocole triestine e che non ha mai trovato nei suoi anni all'Assassino, la terza casa, dopo quella vera, piena di figli, sei, dopo quella dello spogliatotoio milanista.
Fu così anche il giorno in cui lo incontrammo per la prima volta negli spogliatoi di San Siro, perché quel ragazzo ventiduenne dagli occhi luminosi che arrivava da Servola, lo storico quartiere triestino ad un chilometro dal golfo meraviglia che vedi nel suo sguardo anche oggi, non era ancora un campione, ma capivi che lo sarebbe diventato sicuramente.
C'era curiosità per capire come avrebbe potuto sistemarsi in un difesa al posto di Omero Tognon, in una squadra che oltre a lui aveva appena preso Pepe Schiaffino, l'uomo della "propetiva" creativa, e l'argentino Ricagni, nel Milan passato sotto le presidenza di Angelo Rizzoli subentrato al mitico Umberto Trabattoni. C'era anche un po' di ansia perché l'anno precedente, quando Bela Guttman lo aveva segnalato, era al centro della difesa triestina che fu sommersa di gol dal Milan del pompierone Nordahl che con il giovane mulo aveva avuto anche un battibecco che era finito davvero male. Toni Busini, altro mitico personaggio della storia milanista, direttore tecnico, aveva tranquillizzato tutti, soprattutto Nordahl che in quella stagione era diventato il capitano. Bastò il primo intervento su Jensen, attaccante della Triestina che era proprio la prima avversaria all'esordio a Milano il 19 settembre 1954, per far capire che quel mulo sarebbe diventato un grande.
Aveva una struttura armonica, era alto 1 metro e 82, pesava 76 chili, non era un difensore ringhioso, ma sapeva armonizzare la linea arretrata, era pronto per fare tutto e, infatti, vinse il primo scudetto giocando 27 partite, l'ultima da terzino contro la Pro Patria nel pareggio che consentì al Milan di chiudere davanti all'Udinese.
La vera rivoluzione avvenne due anni dopo con l'arrivo di Gipo Viani e quando il Milan presentò al calcio il suo "libero" suonarono davvero le campane. Era eleganza, anche troppa diranno quelli che ricordano malignamente le “maldinate” che per tutti noi erano comunque arte, era intelligenza al servizio del ruolo e dei compagni come poi scoprì Nereo Rocco che fu uno dei suoi veri padri sportivi insieme a Bearzot e agli svedesi, cominciando da Liedholm.
Era davvero un giocatore di luce, uno che poi nella sua vita forte ha provato di tutto, ha saputo insegnarci cosa voleva dire militanza: in una squadra sportiva, in un mondo dove lui ha lasciato davvero una traccia. Auguri.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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