Gli abissi della guerra

Quando la realtà viene vissuta come un’avventura cinematografica le emozioni si confondono e non si avverte la differenza chiaramente tra verità e finzione. Si resta con il fiato sospeso, eventualmente si inumidiscono gli occhi per la commozione, ma poi si spegne lo schermo e si accendono le luci della sala. Se c’è tempo e voglia si va anche a mangiare la pizza con tanti saluti al dramma appena vissuto.
Un dramma vero è quello del piccolo sommergibile russo in avaria a 190 metri di profondità, al largo della penisola di Kamchatka. Dentro ci sono sette uomini e se nessuno riesce ad andarli a riprendere, moriranno asfissiati. E forse oggi, domenica, è già segnata la loro sorte.
Un’avventura terribile che potrebbe essere il copione di un film: come se fosse una sceneggiatura, ci vengono raccontate le ultime ore di quei poveri disgraziati sotto l’oceano, e quanto più durerà la loro agonia (certo sperando che la vicenda si chiuda con il successo dei soccorritori), tanto più sarà avvincente la storia del sottomarino e del suo equipaggio. Tuttavia sembra una storia malinconicamente vecchia, vecchia anche per un copione cinematografico.
Il sottomarino russo Priz, quello, appunto, rimasto incagliato, dovrebbe servire per aiutare i veri e propri sommergibili che si trovano in difficoltà. La sua funzione rientra, quindi, verosimilmente in una strategia di guerra che si svolge negli abissi: per esempio, un sommergibile attaccato dal nemico giace colpito sul fondo del mare; ecco allora giungerne uno di salvataggio tipo il Priz che risolve i problemi riportando l’equipaggio in superficie.
Ma questo è lo scenario di un’altra guerra di un mondo ormai lontano; è la riprova che una nuova guerra non si combatte mai con le stesse armi e con la stessa strategia di quelle precedenti. La storia ce lo insegna e ci parla di grandi condottieri e generali che hanno vinto le battaglie decisive proprio perché hanno intuito in quale nuovo modo sarebbe stato necessario difendersi e contrattaccare.
Il Priz in fondo al mare sembra volerci ricordare proprio questo: una guerra che non si combatterà mai più con gli arsenali bellici di cui esso stesso fa parte. E la sofferenza (il sacrificio) di sette povere vite appese all’ultimo respiro concesso dall’ossigeno sempre più rarefatto sembra simbolicamente suggerirci che essa non sarà inutile se si rifletterà sull’inutilità di una guerra combattuta con quelle armi.
Calerà il sipario sul dramma del Priz, e noi resteremo alle prese con la reale, la realissima nuova guerra moderna, quella scatenata dal fondamentalismo islamico. E facciamo fatica a comprenderla, perché come tutto ciò che è nuovo ha una complessità che sfugge ai principi conoscitivi di cui disponiamo. Anche il linguaggio tradisce questa nostra debolezza conoscitiva. Chiamiamo i nuovi nemici «kamikaze», pur sapendo che la parola nulla ha a che vedere con il suo originario significato storico-culturale. Chiamiamola nuova guerra «terrorismo», pur sapendo che non si tratta di un terrorismo «tradizionale»: non è quello delle Brigate rosse, non è quello dell’Ira, dell’Eta. Questo modo di usare parole note per definire una guerra nuova, mai prima combattuta, aiuta a esorcizzare la drammaticità della situazione, dà l’illusione di poterla meglio controllare.
Il mondo civile si è unito ieri per scongiurare l’eventualità di una nuova Hiroshima: non ci sarà una nuova Hiroshima perché quella è una tragica, vecchia storia.

Ci saranno le valigette atomiche che stanno preparando gli scienziati iraniani negli scantinati degli ospedali di Teheran, perché i devoti di Allah sanno che i crociati occidentali sono troppo civili e troppo deboli per attaccare un ospedale. Ci saranno scatolette con le fiali contenenti gas micidiali... E ci saranno chissà quali altre armi terribili. Certamente, in questa nuova guerra non ci sarà necessità di un sommergibile Priz e dei suoi uomini.

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