Abraham Lincoln, il grande presidente decisionista

Inventò gli Usa (e la first lady). E ancora: abolì la schiavitù, cambiò la Casa Bianca imponendo lo staff e il ruolo della moglie. Così trasformò gli Stati Uniti in un vero impero, ma al costo di una guerra civile

Abraham Lincoln, il grande presidente decisionista

Basta avere una banconota da cinque dollari in tasca. La faccia. Lincoln guarda l’America dai verdoni e dalla coscienza. C’è ed è ovunque. Nei palazzi del potere, nelle strade, nei comizi, nella vita di ogni giorno, nei telegiornali. A Washington e nell’ultima contea del Montana. «No Lincoln, no Nation», dice adesso l’intellettuale Christopher Hitchens. Duecento anni dopo, gli Stati Uniti del 2009 sono pieni del presidente Abramo. È un eredità politica, culturale, sociale: Lincoln non piace a tutti, ma è considerato il personaggio più importante della storia Usa. «Il più grande americano», ha scritto l’Atlantic Monthly nel 2005, considerandolo più di Washington, Jefferson, Roosevelt. Forse è tanto. Forse è troppo. Il dibattito è aperto, i detrattori ci sono a destra e a sinistra. Parlano e scrivono, intanto l’America sa che se è diventata impero è perché un giorno è stata guidata da quest’uomo alto e magro, amato e discusso, padre del partito repubblicano e però responsabile della Guerra Civile.

Lincoln c’è. C’è stato in George W. Bush che a lui s’è ispirato. C’è in Barack Obama che ha deciso di ripercorrere il suo cammino un secolo e mezzo dopo. Non è solo simbolismo, comunque. L’America contemporanea è impregnata di lincolnismo: lo festeggia come il genitore della patria moderna. Ci sono 27 biografie uscite a cavallo tra il 2008 e il 2009. Raccontano l’uomo, l’avvocato, il marito, il presidente, il depresso, il cinico, il cattivo. Ovvero Lincoln. Ci sono le sue lettere inedite e articoli considerati perduti. Come se l’America cercasse nel 16° presidente se stessa e il suo mondo. Allora ogni saggio, ogni libro, ogni evento ricorda il discorso di Gettysburg: «A New Birth of Freedom», una nuova alba della libertà. Alla National Portrait Gallery espongono le sue maschere scultoree e le fotografie più famose. All’American History Museum è stata appena aperta una mostra sulla sua vita «straordinaria»: c’è anche il cilindro che indossava la notte in cui venne assassinato. L’omicidio avvenne al Ford’s Theatre, anche questo già restaurato e fra poco riaperto. E per gli appassionati della mondanità, l’American Art Museum dedica una sala al suo ballo inaugurale, dove si possono vedere anche inviti e menu originali.

È amore e un po’ voglia di aggrapparsi a qualcosa, a una faccia, a una storia, a una guida. Sbagliata per qualcuno, giusta per la maggioranza. Christopher Hitchens ha spiegato tutto in questi giorni: «Lincoln è stato il primo a cambiare l’America: prima di diceva United States are, con lui s’è cominciato a dire United States is. Singolare, invece di plurale». Nazione. Unione. È il lascito che l’America s’è presa a costo di seicentomila morti nella Guerra di Secessione che per i nostalgici dei Confederati sono tutti sulla coscienza di Abramo.

C’è altro. C’è molto. Nel 2009 c’è più Lincoln di quanto si possa immaginare. All’America ha consegnato l’inizio di una nuova stagione politica. È stato il primo grande oratore in un Paese abituato a essere fino ad allora guidato da condottieri. Non c’è un solo storico americano oggi che non dica che il Gettysburg Address non sia l’esordio della nuova retorica americana: «Il mondo noterà appena, né a lungo ricorderà ciò che qui diciamo, ma mai potrà dimenticare ciò ch’essi qui fecero. Sta a noi viventi, piuttosto, il votarci qui al lavoro incompiuto, finora così nobilmente portato avanti da coloro che qui combatterono. Sta piuttosto a noi il votarci qui al gran compito che ci è di fronte: che da questi morti onorati ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero, della devozione, l’ultima piena misura; che noi qui solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano; che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo di popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra».

L’America deve a Lincoln anche il primo tentativo di dare un ruolo politico alla moglie del presidente. La First Lady come la conosciamo oggi è eredità diretta di Eleanor Roosevelt, ma lei prese spunto e riaggiornò l’icona femminile di Mary Todd, prima signora a comparire stabilmente accanto al marito nelle uscite pubbliche, a farsi fotografare con Abramo, a lasciare che le cronache dell’epoca raccontassero la loro vita privata e le loro passioni. Con lei fu inaugurata la tradizione di rivelare il menù del pranzo di insediamento. La presidenza del New Deal avrebbe trasformato tutto questo in qualcosa di nuovo, che però senza il precedente di Mary forse non ci sarebbe mai stato. Il revisionismo anti-lincolninano ha contestato anche questo. Oggi nessuno lo fa più. Oggi è il contrario. Allora anche la nascita dei consulenti politici è considerata sua: Abramo si circondò di aiutanti, collaboratori, consiglieri. Un gruppo, una squadra. Lui, il capitano. Per qualcuno anche troppo: alcuni storici sostengono che li detestasse cordialmente, considerandoli poco e male, giudicandoli spesso incapaci o inetti. La verità è che comunque fu il primo presidente a condividere davvero il potere: mai la decisione, ma la trattativa, l’elaborazione dell’idea. Così con il celeberrimo team of rivals, ovvero il suo gabinetto. Altro punto cardine della presidenza Lincoln rimasto intatto e immutato: l’Amministrazione americana è sfaccettata da allora, da quando lui scelse un gruppo di ministri eterogeneo e fatto di gente incompatibile.

L’America ha aggiornato l’edizione della squadra di rivali a ogni presidenza: l’ha avuta Kennedy, l’ha avuta Clinton, l’avrà Obama. Fa parte del Dna della politica di Washington ormai. Come gli sporchi trucchi della campagna elettorale. Ci sono, anzi ora sono al massimo: li abbiamo visti nella campagna elettorale Obama-McCain e prima in quelle Bush-Kerry, Bush-Gore, Clinton-Bush senior. Li abbiamo raccontati nelle primarie, quando si gioca tra «amici» e invece si finisce per odiarsi. Ecco Lincoln fu il primo. Era il 1860, a Chicago. A casa: Abram non era ancora il secondo padre della patria, era un avvocato bravo e spregiudicato con un’ambizione grande così e con tanti amici. C’era la convention repubblicana e lui era il candidato contro Seward per la nomination del partito. Aveva paura di perdere, Lincoln. Così decise di far stampare i biglietti di invito al suo amico tipografo Ward Lamon. Di giorno Lamon preparava gli ingressi ufficiali, la notte li duplicava, regalando quelli falsi a Lincoln. I suoi fan si presentarono al botteghino del Wigwam di Chicago all’alba, quando arrivarono i militanti del rivale Seward non c’erano più posti in tribuna. Lincoln vinse per acclamazione. Vinse e fu nominato. Poi fu eletto. Presidente, il sedicesimo della storia, il primo moderno.

Sono passati 149 anni: c’è sempre, con i suoi trucchi e con i suoi discorsi, con la coscienza pulita della fine della schiavitù e quella sporca della guerra civile. C’è ancora e c’è chi dice che non se ne andrà: dicono che il suo fantasma abiti ancora nella Casa Bianca. È una leggenda, però qualcuno l’ha scritta nei libri di storia.

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